OSCAR 2024

È andato tutto quasi secondo previsioni nella premiazione degli Oscar di quest’anno, che forse più che nelle precedenti edizioni hanno dato la sensazione di risultati prodotti più da calcoli di equilibri culturali (non mancano mai le polemiche sulle esclusioni/presenze di minoranze varie) e di rilevanza politica che su meriti artistici. Il che ovviamente non vuol dire che un premio non sia sacrosanto (la selezione era comunque notevole) ma certo il sospetto che sulle valutazioni pesino sempre di più altri fattori in alcuni casi si fa strada.

Non è il caso della vittoria comunque largamente prevista (il film di aveva nelle scorse settimane racconto ogni possibile premio in Usa e in giro per il mondo per quelle stesse categorie in cui ha poi trionfato) di Christopher Nolan e di Oppenheimer come miglior film e miglior regia, appesantita ulteriormente dai premi a Cillian Murphy come protagonista e a Robert Downey Jr come non protagonista, oltre che al montaggio e alla colonna sonora.

Anche se pure tra i più appassionati di Nolan c’è chi dice che questo non è il suo miglior film, non si può fare a meno di gioire per il riconoscimento al lavoro ad uno dei pochi grandi autori rimasti capaci di valorizzare del cinema sia l’aspetto della scrittura e delle storie che quello squisitamente spettacolare che fa di esso un’esperienza da “grande schermo”. Non guasta ovviamente che in un’epoca di guerre tra superpotenze Oppenheimer si ponesse con chiarezza e consapevolezza anche come monito verso le tentazioni di onnipotenza dell’uomo raccontando l’uomo che ha inaugurato l’era atomica con tutto quello che comporta. E infatti Cillian Murphy ha dedicato il suo premio a chi si adopera per portare la pace.

L’eco dell’attualità, oltre che nella premiazione al miglior documentario a 20 giorni a Mariupol (primo film ucraino nella storia a vincere un Oscar, un film che il suo regista, Mstyslav Chernov, avrebbe voluto non dover mai fare) è giunto anche attraverso il ritardo con cui la cerimonia è iniziata, causata dalle manifestazioni pro-Palestina.
E del conflitto in Medio oriente si è parlato molto anche sul palco, anche in occasione della premiazione (data per certa ormai da settimane) del miglior film straniero, andata a Zona di Interesse di Jonathan Glazer (ha vinto meritatamente anche il premio per il miglior sonoro, e chi ha visto il film sa bene perché), un film di gelida e cerebrale perfezione che racconta per sottrazione la tragedia dell’Olocausto concentrandosi sulla vita da famigliola felice del direttore di Auschwitz che scorre inconsapevole a fianco dell’orrore. Un film sullo sterminio degli ebrei, dunque, che però si presta (e le parole del suo regista hanno legittimato interpretazioni in questo senso) ad alimentare le polemiche legate al conflitto a Gaza.

Poche possibilità aveva avuto fin dall’inizio in questa categoria Matteo Garrone con Io capitano, che tuttavia ha il merito di aver portato in giro per il mondo una storia davvero universale, che, senza censurare il dramma e l’orrore dei percorsi dei migranti, coglie del viaggio dei suoi due protagonisti l’ardore e lo spirito di avventura che li rende così vicini a ciascuno di noi.

Emma Stone si porta a casa il suoi secondo Oscar con Povere creature!, e in effetti il film di Yorghos Lanthimos (che per il resto raccoglie poco, se non nei dipartimenti tecnici di trucco e parrucco, costumi e scenografia), esuberante, squilibrato ed eccessivo, poggia in gran parte sulla vitalità convinta della sua interpretazione, che trascina il pubblico in un coming of age sui generis pieno di ombre e di luci. Resta a mani vuote l’altra grande favorita della vigilia, Lily Gladstone, protagonista di Killers of the Flowers Moon (anche Scorsese torna a casa senza nulla), la cui vittoria molti avevano pronosticato anche perché avrebbe fatto la storia come prima nativa americana a salire su quel palco (se si esclude Sacheen Littlefeather, che lo fece per rifiutare, per conto di Marlon Brando quello che gli avevano dato per Il padrino).

Abbastanza scontata invece la vittoria di Da’Vine Joy Randolph per The Holdovers (aveva già trionfato ai Bafta e ai Golden Globe). Spiace per Paul Giamatti, che sicuramente avrebbe meritato come protagonista per il film di Alexander Payne, che proprio alla vigilia degli Oscar, ma a votazioni concluse, è stato convolto in una brutta accusa di plagio. La sceneggiatura, che era candidata tra quelle originali (la vittoria è andata alla francese Anatomia di una caduta) sarebbe stata in gran parte ripresa da un’altra mai prodotta ma a lungo stata nella mitica “black list”, dove molte sceneggiature eccellenti sono raccolte ma non realizzate.

Ce l’ha fatta, invece, tra le sceneggiature non originali, American Fiction, piccolo film (per gli standard statunitensi) che mette alla berlina in maniera intelligente l’ossessione tutta americana per il politically correct, che in nome dell’anti razzismo finisce per relegare i neri (ma potremmo dire lo stesso per tante altre minoranze) in un ruolo stereotipato e tutto sommato confortevole, si tratti di cinema o di letteratura. Il film di Cord Jefferson (visibile su Amazon Prime) parla di tutto questo ma lo fa, per fortuna, con grande umorismo e umanità, evitando di pontificare e invece trasformando in occasioni si satira spietata alcune situazioni paradossali e in realtà drammatiche.

Al netto delle grandi polemiche post candidature per l’esclusione dalle candidature di regista e protagonista di Barbie (Greta Gerwig e Margot Robbie) un successo al botteghino ma anche con un forte impatto culturale nel mainstream, il film si porta a casa la statuetta per la migliore canzone (era candidato anche per sceneggiatura, scenografia e costumi, oltre che per la rutilante prova d’attore di Ryan Gosling-Ken che si è esibito anche durante la cerimonia) e tutto sommato (proprio come dice un dirigente Mattel nel finale del film) dall’alto della pila di milioni di dollari incassati si potrà ci si potrà sempre consolare dicendosi che quel che importa è che si venda.

Non è un’osservazione peregrina ma serve a ricordarsi che Hollywood è da sempre una grande industria, che premia l’eccellenza (come è giusto che sia) con un occhio alla bellezza e uno al portafoglio, che negli ultimi anni ha avuto l’intelligenza di aprirsi sempre di più al mondo per andare a pescare sempre più lontano (in Europa prima e ora anche in estremo Oriente, pensiamo al successo della Corea) le sue storie e i suoi talenti. E alla fine, premi o non premi, sarà il pubblico a decidere quali sono le storie migliori da guardare, sul grande o sul piccolo schermo.

Beppe Musicco

 

 

A cura di:

BEPPE MUSICCO, giornalista cinematografico e critico. Cofondatore e attuale presidente dell’associazione culturale Sentieri del Cinema ( www.sentieridelcinema.it  ). Autore di libri di cinema, consigliere di amministrazione della Fondazione Cineteca di Milano.

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