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Scuole aperte: ne vale la pena?
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Dopo l'articolo per Professor Maffullo dedicato al nuovo PEI, oggi ospitiamo sul sito un altro dei nostri formatori, il Professor Paolo Ravazzano, docente di Storia e Filosofia, esperto di Orientamento ed edcuazione alla cittadinanza, sulla spinosa questione della riapertura delle scuole.
Ammettiamolo: non sono deboli i motivi per non riaprire “in presenza” la maggior parte dei percorsi scolastici e universitari italiani.
C’è la salute, bene primario.
Rischiare la pelle non è mai una gran bella cosa e per di più qui ci rimette anche il tuo prossimo (termine che ormai ha il suono allarmante di “contatto stretto”). E si è visto che il Covid non è stato tenero con gran parte dell’Italia: basta paragonare il tasso italiano di letalità Covid con quello della maggior parte dei paesi cosiddetti “sviluppati” e moderni. Anzi, basta guardarsi intorno, talvolta vicinissimo, purtroppo: e il dolore ci richiama tutti sull’attenti.
Ci sono poi le regole: occasione manifesta per riproporre un rinnovato impegno civico e sociale, ultima (o ennesima?) chance nazionale (e globale) per uscire dal vicolo cieco di un individualismo che agonizzava da tempo, oscillando tra il depresso e il pretenzioso.
Ci sono i Crisanti, i Galli e i Cartabellotta (Fondazione Gimbe) a ripeterci con notevole insistenza che di vivere più liberamente “non ce lo possiamo permettere”, che con certezza se allentiamo un po’ “saremo devastati” da un’ennesima ondata.
C’è infine il nostro sistema sanitario (non proprio ben distribuito, flessibile e efficiente) che il Covid ha messo più volte in crisi e che ha dovuto ridurre o posticipare tanti suoi servizi “non Covid”, con una serie drammatica di ripercussioni su salute e mortalità che solo da poco stiamo capendo, con sempre più sgomento.
Insomma, i motivi sono motivi, come le regole sono le regole.
E poi ci sono pure altre cose.
C’è che di vivere “limitatamente” non ne possiamo più. E siamo in tanti.
C’è che mezza Italia per buona parte degli ultimi dodici mesi è stata messa in “carcere virtuoso” a casa sua, con vecchi e bimbi a carico (mentre l’altra mezza sgobbava per far vivere se stessa e la metà “carcerata”).
C’è che tutta la massa di regole, scritte e riscritte più e più volte, fitte e molteplici, cangianti (e sempre tanto perentorie quanto in procinto di revisione totale) per uscire di casa, per stare in un negozio, per fare la spesa, per prendere un mezzo, per raggiungere i parenti, per fare una riunione, per andare a scuola… non convincono davvero più molti di noi, perché ingombrano e disincentivano senza che si colga un reale beneficio per gli italiani, mentre ad altri sembrano sempre e comunque “a maglia troppo larga”.
C’è la scuola, infine. Solo ieri sembrava a tanti...
Solo ieri sembrava a tanti pesante, anonima, con pretese troppo formali e poca sostanza, sempre un po’ fuori tempo, sempre un po’ troppo astratta soprattutto quando non doveva esserlo... ma sono bastate poche settimane di chiusura ed è partito il “disco nostalgico”: tutti a rimpiangere i bei tempi della scuola ora ribattezzata “in presenza”.
Ed ecco il dibattito Scuola in Presenza contra Dad, come fossero due Idee platoniche che si scontrano, come se esistessero “La” scuola in presenza e “La” Dad e non una, cento, mille configurazioni (possibili, obbligate, virtuose, dissipatorie) di scuola e altrettante di Dad.
Insomma, soprattutto per i più grandi il problema non è stata la Dad: è stata una Dad eccessivamente protratta lungo la mattina e nel tempo (perchè il Modello e il Contratto sono quasi sacri, pazienza se ne va di mezzo la salute psicofisica dei ragazzi…ma anche dei docenti), eccessivamente omogenea e appiattita sulla “lezione” spesso pure poco ricalibrata (ascoltate quello che raccontano i ragazzi, anzi: genitori, sbirciate voi stessi… l’avete fatto, vero?) e senza una prospettiva temporale, senza una “scadenza”: più simile quindi a un tunnel senza sbocco tangibile. Strano che, se fatta così, non sia stata tanto sana?
Non per nulla, poi, quando il rientro in presenza ha coinciso con una mitragliata di verifiche e test e verifiche non proprio “pedagogicamente” ben soppesati, tanti ragazzi hanno detto che no, no, era meglio stare a casa.
Quasi che la sedazione semi onirica in cui si sono annebbiati non pochi studenti rintanati nelle loro stanze per troppo tempo potesse sciogliersi come neve al sole al “fuoco amico” delle verifiche. Quasi che il Meccanismo (vera essenza della scuola di Stato?) ripartendo con ferrea determinazione, fosse già un po’ la soluzione.
E invece, come si sa e si finge di non sapere, i bambini e i ragazzi non hanno bisogno solo di meccanismi ben rodati.
La pandemia spinge a porsi gli interrogativi più profondi e veri, può essere un’occasione preziosa per verificare la validità delle proposte che abitualmente facciamo ai giovani, permette di vederne più facilmente i limiti e stimola la ricerca di nuove forme e nuovi contenuti.
Cosa può dare veramente un’apertura alla realtà, un gusto per la vita e per le cose? Come deve essere la scuola per favorire una esperienza di tale genere? Senza questa esperienza di senso i giovani si perdono e perdono le ragioni di ogni impegno.
Quante forme conclamate o striscianti di anergia, di “passioni tristi” senza neppure più la passione, di grigiore inerte, hanno vissuto o stanno vivendo un numero incalcolabile di giovanissimi italiani.. Già prima un po’ smarriti, ora fluttuano, sonnambuli. “Non ne ha più voglia”; “non ce la fa più”.
Ma non si dica che la scuola è solo meccanismo. Quanta scuola italiana (statale e “libera”) ha reagito eroicamente, rimboccandosi le mani, accogliendo in tutti i modi piccoli e meno piccoli da uno schermo o in presenza, quando si è potuto. A volte sfidando la paura (la propria innanzitutto) e l’esempio di scuole vicine che facevano molto meno e molto meno bene (“per sicurezza”?).
Ora riparte la macchina scolastica, tra polemiche vecchie e nuove. Si vorrebbe far rientrare tutti, ma le aule non si possono moltiplicare a piacere: le regole andrebbero quindi subito riviste? (oddio, non sia mai: o no?) e i trasporti, poi? la verità forse è che i trasporti sono quello che sono: in quasi tutte le città, nelle fasce orarie di punta le cose con le “nuove regole” non si risolvono con una bacchetta magica o “aggiungendo qualche corsa”.
Eppure in questo marasma qualcuno sussurra dalla mascherina: “prof, meglio a scuola, a casa non ne potevo più. davvero, sa?” e tu capisci che ti sta dicendo la sacrosanta verità.
Pensiamoci quando si tenta (e si sta tentando) di rallentare le riaperture, per mille ragioni. Quando si levano gli scudi e si dice: no, così non si può riaprire. Pensiamoci bene: perchè tanti, tantissimi giovani non sarebbero d’accordo (se noi lavoriamo bene), perchè la scuola è uno dei pochi luoghi rimasti dove capita talvolta (ma non troppo raramente) che i ragazzi vivano e pensino, collaborino, studino, provino, lottino, scoprano. Dove alcuni riscoprono un senso, un progetto, una prospettiva. Per crescere ritrovando un gusto, uno sguardo diverso. Capita.