“Jannis Kounellis”

Fino al 24 novembre, a Venezia, presso la Fondazione Prada, nella rinnovata Cà Corner della Regina, organizzata da Germano Celant, si può vedere una mostra eccezionale: la prima vasta retrospettiva dedicata a Jannis Kounellis (Pireo 1936 – Roma 2017) a due anni dalla sua scomparsa, un artista che ha lasciato un segno importante nella cultura visiva italiana e mondiale, nella seconda metà del XX secolo e nei primi due decenni del XXI.

La mostra permette di seguire passo dopo passo le scoperte, le sperimentazioni e le provocazioni dell’artista, a partire dal primo piano, nelle sale attorno a quella centrale più grande, che ospita le istallazioni monumentali.

Il percorso prende le mosse dai primi anni di attività dell’artista, che da Atene arriva a Roma alla fine degli anni Cinquanta e viene a contatto con un ambiente culturale ed artistico molto vivace. All’Accademia di Belle Arti incontra un maestro di scenotecnica, Toti Scialoja, che gli fa balenare la possibilità di realizzare opere pittoriche che vivono e convivono nell’ambiente, giungendo a coinvolgere attivamente il pubblico. E’ questa una chiave di lettura fondamentale per leggere il lavoro di Kounellis, che si spinge ben oltre l’espressionismo astratto degli americani, Pollock sopra tutti, muovendosi verso e nello spazio, per uscire dalla pittura, per “andare altrove”. Il viaggio ha sempre “un carattere iniziatico, è un’idea di conoscenza attiva, amorosa, espansiva” (Kounellis, 1996) e ciò di cui va alla ricerca è innanzitutto sé stesso, e una nuova dimora, che cerca nelle vie di Roma.

Nelle prime sale vediamo tele con lettere, numeri, frecce, quasi fosse cartelli indicatori ai margini delle strade, che l’artista aspirava a cantare o a mettere in musica: è il primo atto che intende far vivere quei segni, che sono anche suoni, direttamente nella realtà e per creare una lingua nuova. Una grande passione per il reale, per ciò che vive, caratterizza il lavoro dell’artista greco fin dalla giovinezza, che arriva a considerare, quale materiale per creare, elementi naturali, come il carbone, il legno, la lana, ma anche uccelli vivi fino al fuoco, al fumo.

In uno dei capolavori degli anni Sessanta, Kounellis associa una grande margherita metallica ad una fiamma che esce dal punto centrale: il calore del fuoco scalda il metallo, lo rende malleabile e trasformabile, così come tutto in lui e intorno a lui può trasformarsi e vivere una nuova vita.

Il suo linguaggio è sempre più fisico e l’utilizzo di elementi organici permette di coinvolgere i sensi in un’esperienza totale “dentro” l’opera: la percezione olfattiva, ad esempio, viene stimolata dalle decine di sostegni posti lungo una parete dello scalone che sale al secondo piano, che portano piccole quantità di caffè, oppure dalla miriade di bicchierini di grappa posti sul pavimento a sostenere un pesante elemento metallico: il caos vitale della realtà, con le sue antinomie, diventa linguaggio delle forme e sempre direttamente esperibile.

La dimensione sonora è documentata, in mostra, da dipinti che si traducono in uno spartito da musicare o da danzare: in alcuni momenti della giornata o della settimana, davanti alle tele un musicista o una ballerina rendono possibile partecipare all’evento totale dell’arte.

Pur essendo uno dei protagonisti dell’Arte Povera e partecipando alle mostre del gruppo, Kounellis elabora una personalissima modalità espressiva, che interpreta la cultura antica in chiave contemporanea, reagendo alla perdita di identità storica e politica del secondo dopoguerra.

L’installazione che meglio documenta il drammatico momento vissuto dall’artista, che vede crollare gli ideali eroici degli anni precedenti è Senza titolo (Tragedia civile) del 1975, esposta il 28 maggio in ricordo della data della strage di Piazza della Loggia a Brescia: davanti ad una grande parete rivestita di foglia d’oro che ricopre una parete spoglia, vediamo un cappotto ed un cappello neri, appesi a un attaccapanni, mentre una lampada ad olio brucia sulla parete accanto. Un senso di abbandono e di assenza sembra dominare, ma la brillantezza dell’oro, che ricorda in modo struggente quella dei mosaici bizantini, e la lampada parlano di una speranza ancora presente, che resiste alla durezza dei tempi. Un sentimento analogo viene espresso dal fumo, legato al fuoco, residuo della combustione che trasforma e distrugge, prova dello scorrere del tempo, che lascia tracce sui muri in molte opere di Kounellis degli anni Ottanta.

L’artista continua a mantenere alta la tensione per comunicare la reale condizione dell’uomo e dell’artista: dalla fine degli anni Ottanta realizza i muri, ovvero grandi lastre di metallo su cui appaiono, compressi da travi, sacchi di carbone o indumenti (scarpe, cappotti).

I cappotti, insieme a scarpe e cappelli, sono i protagonisti di una delle grandi installazioni collocate nello spazio centrale del primo piano: sono distesi a terra, ordinatamente, uno accanto all’altro. Ricordano l’eccezionale installazione per l’ex oratorio di San Lupo a Bergamo, sotto il pavimento del quale erano sepolti i defunti: qui, al centro, una croce in ferro inclinata rimandava visivamente al Cristo portacroce e tutto l’insieme si configurava con un unico atto drammatico. Da ricordare che, fino al 10 novembre, a Casa Testori a Novate, sono esposte dodici grandi incisioni, realizzate nel 2014 con la tecnica del carborundum, che hanno come tema il cappotto. E’ una delle ultime grandi imprese di Kounellis, lette anche attraverso le poesie che Testori aveva scritto per Francis Bacon: una triangolazione di grande effetto.

Chiude il percorso, in realtà riassumendolo e riaprendo ancora una volta lo sguardo sul mondo, la monumentale installazione del 1992, riproposta nella corte interna del palazzo veneziano, creata originariamente per la facciata esterna di un edificio di Barcellona, composta da sette piatti metallici a sostenere sacchi contenenti chicchi di caffè.

Scrive Kounellis “La bellezza ci appare come un’indicazione; ci viene data, ed è per questo che è così piacevole.” Impossibile dargli torto.


 A cura di:

GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.

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