MATERIALI PER L'INSEGNAMENTO - ARTE
L'Italia e le arti negli anni tra le due guerre: tra "ritorno all'ordine" e libertà creativa
L’ITALIA E LE ARTI NEGLI ANNI TRA LE DUE GUERRE: TRA “RITORNO ALL’ORDINE” E LIBERTÀ CREATIVA
Il mese di maggio, anche in regime di quarantena, sarà dedicato alla conclusione dei programmi, all’apertura di nuove prospettive e a percorsi futuri, di studio e di vita, per tutti gli studenti ma, in particolare, per gli studenti dell’ultimo anno. Tra gli ultimi argomenti trattati nei programmi di Storia dell’arte, ma solitamente anche di Storia, uno dei più significativi riguarda il Ventennio tra le due guerre, che, In Italia, è stato dominato dal regime fascista osservato e studiato, se non dagli anni ‘70 e ’80, a cui risalgono i primi testi critici che hanno permesso di comprenderne luci e ombre, sulla base di fatti e fonti chiaramente individuati. Uno dei principali contributi all’analisi è stato scritto da Fernando Tempesti -Arte dell’Italia fascista- pubblicato da Feltrinelli nel ’76, tra i primi e meglio documentati testi s. Vorrei offrire qualche spunto di riflessione, anche in vista della preparazione dell’Esame di Stato, su questo periodo, a lungo ostracizzato, vittima di pregiudizi e quindi non adeguatamente ul periodo in questione. Un agile e sintetico strumento di lavoro è anche il fascicolo allegato alla rivista Art e Dossier della Giunti, pubblicato nel settembre 2012, dal titolo “Le arti e il fascismo. Italia anni Trenta” di Silvia Bignami e Paolo Rusconi.
1. La Metafisica e Valori plastici
Nell’ambito delle arti figurative, il dibattito e le nuove proposte iconografiche e formali sono già in campo da qualche anno, prima di quel 1918, terminato il conflitto mondiale, che vide la prima uscita della rivista, “Valori Plastici”, fondata a Roma da Mario Broglio, direttore e finanziatore, che raccoglieva un gruppo di intellettuali accomunati dal credo antifuturista, che riteneva futuristi e cubisti, i prodotti della civiltà materialista, che adorava la macchina e rifuggiva dagli ideali della classicità. Tra i principali collaboratori vi era quel Giorgio De Chirico che aveva iniziato a realizzare le prime opere metafisiche negli anni ’10.
Ne L'enigma dell'ora (1) è già presente quella visione del mondo pacata, solida, ma anche distaccata e profonda che caratterizzeranno molte opere dei decenni successivi e che opponevano nuovi valori formali a quelli del dinamismo futurista. L’assorta, silenziosa ed enigmatica atmosfera metafisica di questo quadro, con le sue forme definite e “classiche” rimandano a quel “principio italiano“ di cui tratterà Carlo Carrà, un futurista convertito alla Metafisica, sulle pagine della rivista dopo il 1918.
1. De Chirico, L'enigma dell'ora, 1911, 55x71 cm.
Secondo Carrà, il principio italiano è “quel concetto pittorico che ha permesso la fioritura della grande arte italiana dal Trecento al Rinascimento”, (…) e che “non è affatto in contrasto con la tradizione moderna quale si è venuta determinando dopo Cézanne. Non solo, ma da questi presupposti è possibile una rielaborazione della realtà naturale, attraverso l’invenzione, purché ricca di linfa moderna, di un sistema classico-arcaico, mistico in senso laico e perciò appunto moderno.” (M. Carrà, Dalle “cose ordinarie” al realismo mitico, in AAVV, Carlo Carrà, Dossier Giunti, maggio 1987, p. 55) La rivista, anche se a volte con toni polemici, ebbe, dunque il pregio di riaprire la discussione sull’arte italiana del passato e sull’arte straniera, inaugurando il “ritorno all’ordine” e al “mestiere”.
2. Il Novecento italiano
Un’epoca nuova si apre, allora, all’insegna del rifiuto dell’Avanguardia, guardando indietro, al passato e non alla modernità più spinta? Perché questi artisti guardano alla tradizione, anche se con diversi occhi rispetto a quelli di un artista neoclassico?
Osserviamo altri esempi significativi di “riconversione” dello sguardo: il primo è quello di Gino Severini, anch’egli un ex-futurista, che realizza una Maternità (2) di sapore rinascimentale, sia per il tema, che per lo stile classico, composto, pacato.
2. G. Severini, Maternità, 1916, Cortona, Museo dell'Accademia Etrusca
Carrà, invece, dipinge nel ’21 Pino sul mare (3), in cui un pino marittimo solitario, su una spiaggia deserta, accompagnato da un cavalletto con un panno bianco, la facciata azzurra di una casa e, sul fondo, l’ingresso di una grotta, sembra in attesa di qualcuno che, prima o poi, arriverà dal mare. Le semplici e rigorose composizioni di Carrà ricordano quelle delle opere di Giotto, sul quale aveva scritto pochi anni prima un noto studio (Parlata su Giotto, pubblicata ne La Voce nel 1916) e sembrano rimandare al più ampio ordine “cosmico” di cui tutto è parte.
3. C. Carrà, Pino sul mare, 1921, olio su tela, 68x52,5 cm, Collezione privata
Pur incarnandone pienamente le preoccupazioni e la poetica, nè Severini, né Carrà parteciperanno al “movimento” del Novecento italiano, che aveva esordito alla Galleria milanese di Lino Pesaro nel 1922, con un gruppo di sette artisti raccolto intorno a Margherita Sarfatti, una critica d’arte, animatrice anche di un salotto letterario ed amica di lunga data di Mussolini. Nelle ricerche pittoriche di Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi, la Sarfatti aveva notato numerose affinità, come la chiarezza e la saldezza della forma e l’ordine studiato delle composizioni, riconducibili alla volontà di proporre valori ideologici e stilistici che esprimessero il momento in cui si trovavano a vivere, che imponeva un ripensamento su diversi fronti dell’esistenza.
Le opere di Funi (4) e Sironi (5) mostrano una nuova iconografia, che il gruppo sarfattiano stava elaborando: un apparente realismo quotidiano, forme essenziali, concrete e tangibili, che si fondono con un’intenzione poetica che tende a sublimare tale realtà, rendendola un simbolo di una concezione della vita che vuole riappropriarsi delle sue radici, portatrici di valori certi e positivi, che la società del tempo andava ricercando.
4. A. Funi, La terra, 1921 5. M. Sironi, L'architetto, 1922
Questo periodo sarà chiamato, intorno al ’25, da Franz Roh e Massimo Bontempelli “realismo magico”, che Carrà spiegherà con la “necessità immanente della ricerca di un vero poetico”. Il gruppo novecentista parteciperà alla Biennale di Venezia del 1924 e alla mostra organizzata alla Permanente di Milano nel 1926, in cui ad esporre erano ormai centodieci artisti, tra i quali spiccavano i più notevoli protagonisti di quegli anni, da Casorati a Morandi, da De Pisis a Rosai, da Severini a Tosi, dallo scultore Arturo Martini a Campigli. La presenza di Mussolini e il discorso che pronunciò consolidarono l’idea di un legame tra il carattere delle opere esposte e quello dell’Italia che lui voleva condurre attraverso un’azione politica che puntava su valori di certezza, solidità e forza.
Gli artisti di punta della tendenza manterranno, comunque, ampi margini di autonomia rispetto alle richieste del regime, che, pure, nel tempo arrivarono: ad esempio, nel ’30 il Consiglio Nazionale delle corporazioni ripartisce le attività professionali in sette corporazioni, alle quali anche gli artisti dovrebbero aderire e condividerne gli obiettivi; nello stesso anno viene statalizzata la Biennale di Venezia (fino ad allora gestita dall’amministrazione comunale) e verranno promossi dei concorsi a tema; nel ’32 si inaugurò la Mostra della Rivoluzione fascista, nel decennale della Marcia su Roma (ma furono i Futuristi a gestirne l’allestimento). Nel ’33, il trasferimento della Triennale di Arte decorative da Monza a Milano, segnò la volontà di inserirsi in un mercato europeo.
3. Pubblico e privato
Nel contempo, si sviluppò un rinnovato rapporto tra mercanti e collezionisti, tra pubblico e privato: se è vero, quindi, che si moltiplicavano le mostre sindacali, ebbero anche molta importanza e grande successo le iniziative promosse dalle gallerie d’arte. Ad esempio, nella Galleria del Milione, a Milano, negli anni ’30 si fece conoscere la generazione italiana degli astratti (es. Ghiringhelli, Reggiani, Soldati).
Vennero organizzate numerose mostre all’estero dei novecentisti (nel ’30 si tenne una grande mostra a Buenos Aires con quarantasei artisti), grazie soprattutto all’opera del gallerista Gussoni, della Sarfatti e di Mario Tozzi. Tuttavia, nel corso degli anni Trenta si ebbe, in Italia, una lotta antinovecentista da parte di chi accusava il movimento di esterofilia.
Mentre si esauriva l’esperienza sarfattiana, Sironi ne preparava una nuova all’insegna del Manifesto della pittura murale del 1933, firmato anche da Campigli, Funi e Carrà. Molti edifici pubblici saranno decorati da grandi artisti (Sironi realizzò, nell’aula magna dell’Università di Roma, L’Italia fra le Arti e le Scienze (1935), nel Palazzo di Giustizia di Milano, La Giustizia tra la Legge, la Verità, l’Impero e il Fascismo (1936-39), per la VI Triennale milanese, L’Italia corporativa (1936), nel Palazzo del “Popolo d’Italia” di Milano, i rilievi marmorei in facciata e decorazioni interne (1939-41), che prestarono il loro genio creativo al regime, senza necessariamente essere intrappolati dalla retorica mussoliniana.
L’arte, nella visione dei firmatari del Manifesto, doveva recuperare la sua funzione educatrice, in grado di portare messaggi collettivi, popolari: la pittura e la scultura murali, legate all’architettura, di Sironi hanno sempre un carattere severo e altamente simbolico. Ne La famiglia (6) le monumentali figure incarnano l’immagine di una civiltà senza tempo, incentrata sui valori ancestrali della famiglia e del lavoro. Scriverà nel 1956: “Nella mia pittura e in tutta la mia opera il vero protagonista è l’uomo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. L’uomo è l’oggetto più bello e misterioso della Natura.”
- M. Sironi, La famiglia 1929, olio su tela, 215x160 cm., Museo di Villa Necchi Campiglio, Milano
Un esempio significativo, tra i tanti, della pittura murale di Sironi, sono i cartoni per la vetrata della Carta del Lavoro, del 1931-1932, per il Ministero delle Corporazioni (7) La grande vetrata, ancora oggi visibile nell’edificio del Ministero dell’Industria e del Commercio a Roma, presenta, al centro, la consegna della Carta del Lavoro da parte dell’Italia alle diverse categorie di lavoratori che le si dispongono intorno: muratori che stanno innalzando un muro, contadini che vangano e arano un campo nella parte alta, nella quale spiccano anche alcune case, un alto viadotto, le ciminiere delle fabbriche e degli aeroplani nel cielo. La sua pittura si orienta verso forme potenti e sintetiche, di ispirazione classica, segnate però da una drammaticità moderna.
A cura di:
GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.