MATERIALI PER L'INSEGNAMENTO - ARTE
I TANTI VOLTI DELLA REALTA'. Tre mostre milanesi da non perdere
I TANTI VOLTI DELLA REALTA'. Tre mostre milanesi da non perdere
Una stagione ricca di proposte quella che offre Milano in questi mesi fino all’avvio della primavera, nelle sedi espositive di Palazzo Reale e del Museo del Novecento, e che si potrebbe considerare una lunga riflessione sull’idea di “realtà”.
Certo, sono approcci molti diversi quelli di Claude Monet, genio pittorico vissuto a cavallo di due secoli, dei molti artisti italiani e tedeschi accomunati dalle atmosfere del Realismo magico e di Mario Sironi, grande protagonista della cultura artistica italiana tra le due guerre e oltre, ma tutte le mostre offrono suggerimenti per provare ad immaginare dei percorsi con gli studenti, dal momento che si tratta di artisti e tendenze fondamentali per comprendere la modernità e lo stretto legame con la storia a loro contemporanea.
Monet. Opere dal Musée Marmottan Monet di Parigi, Palazzo Reale, fino al 30.01.22
Le opere di Monet, donate nel 1966 da Michel, figlio dell’artista, al Musée Marmottan, permettono di ripercorre l’intera parabola artistica del grande impressionista, che dopo aver mostrato a quali vertici poteva arrivare la pittura di tocco e en plein air, negli ultimi decenni della vita, superati i limiti drammatici dell’immediatezza, giunge ad un dialogo poetico con e dentro la pittura stessa, senza “perdere neanche un atomo di stupore”, per usare le parole di Charles Pegùy (Veronique-Dialogo della storia e dell’anima carnale).
La mostra permette anche di conoscere (sia nella prima sala - che ricostruisce un ambiente in puro stile neoclassico di Palazzo Reale, in sintonia con lo “stile” degli ambienti del Museo francese-, che attraverso alcuni testi del catalogo) la storia della collezione, che nel 1932 Paul Marmottan lasciò in eredità all'Académie des beaux-arts. Secondo le sue volontà, l’anno seguente, l'edificio, insieme agli arredi in stile Impero e ai dipinti neoclassici di cui Marmottan era studioso appassionato, fu trasformato in museo. Trent’anni più tardi, l’ingresso delle opere di Monet lo resero la più grande raccolta al mondo di opere del pittore francese. Queste vicende sono un’occasione imperdibile per avvicinare gli studenti, anche come argomento di Educazione civica, ai temi della conservazione e valorizzazione del Patrimonio culturale.
Già dalle prime sale appare evidente la rivoluzione pittorica di Monet che, con alcuni amici come Johan Barthold Jongkind ed Eugène Boudin, si sposta lungo la Senna (Argenteuil, Bougival), fino alle coste del Mare del nord (Honfleur, Trouville): la capacità di catturare la luce nelle diverse ore del giorno, adattando la pennellata all’oggetto osservato, assecondando il suo movimento e la sua relazione con l’ambiente, è una qualità che subito distingue l’artista; ma quando, viaggiando, arriverà a Londra, l’artista riuscirà a catturare persino l’atmosfera nebbiosa, fumosa, opaca della città, senza dimenticare il brillio improvviso del Tamigi, toccato dai raggi solari che squarciano le nuvole, fissato in un quadro memorabile.
Monet, Londra, Il Parlamento. Riflessi sul Tamigi, 1905, olio su tela, 81,5x92 cm., Musée Marmottan Monet
Ma le ultime sale sono la vera sorpresa: si susseguono variazioni del ponte giapponese, delle ninfee dello stagno, dei cipressi, ai quali Monet lavorò a partire dagli anni ’90, quando acquistò la casa a Giverny e costruì, letteralmente, il suo mitico giardino, fino alla morte, avvenuta nel 1926. La pittura si fa più gestuale, diventa visibile la mano che tiene il pennello.
Realismo magico, Palazzo Reale fino al 27.02.22
La mostra dedicata al Realismo magico, una ricostruzione filologica e storiografica del fenomeno, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli, presenta più di ottanta capolavori della complessa e affascinante corrente artistica, a trent’anni di distanza dall’ultima mostra milanese sul tema curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco nel 1989. Il periodo storico-artistico in cui si sviluppa è quello tra le due guerre, a lungo trascurato o svilito da letture ideologiche, ma ora oggetto di una graduale riscoperta.
I curatori hanno attinto ad una collezione privata emblematica di capolavori del gallerista e critico d’arte Emilio Bertonati (1934-1981) e presenta dipinti dei più incisivi artisti italiani, che hanno fatto parte del gruppo del Novecento italiano, raccolto intorno a Margherita Sarfatti nel 1922, o che hanno lavorato accanto a questi, in modo autonomo benchè spesso consonante con gli intenti dei novecentisti o con gli sviluppi della Metafisica dechirichiana; atmosfere magiche vengono create anche da alcuni artisti austriaci a tedeschi della Neue Sachlickheit (Nuova Oggettività).
Difficile proporre una sintesi e tanto meno una selezione delle opere fondamentali, la qualità è sempre alta, i temi tutti significativi.
Nella Prima Sala - Profezia e definizione di uno stile – troviamo già dei giganti: Carlo Carrà con Le figlie di Loth del 1919, Felice Casorati con il Ritratto di Silvana Cenni del 1922; Mario Sironi con L’allieva del 1924; Giorgio de Chirico con L’autoritratto e L’ottobrata del 1924.
Se Realismo Magico è, secondo la definizione di Massimo Bontempelli “Precisione realistica di contorni, solidità di materia e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta”, queste opere lo realizzano in pieno, come quelle di Achille Funi, Osvaldo Oppi, Antonio Doghi, Mario e Edita Broglio delle sale successive.
Nella Sesta Sala - L’oscurità dell’eros- incontriamo un’opera singolare, Dopo l’orgia di Cagnaccio di San Pietro, del 1928, rifiutata dalla giuria della XVI Biennale di Venezia, presieduta dalla Sarfatti, perché la situazione ambigua poteva alludere, in modo provocatorio, alla corruzione morale dei dirigenti mussoliniani (sul gemello c’è uno sbiadito simbolo fascista). Oltre ad essere, verosimilmente, un omaggio al noto dipinto di Felice Casorati, Meriggio del 1923, che presentava una scena per molti aspetti sovrapponibile a questa, ma dai toni più pacati e forme meno spigolose, l’opera di Cagnaccio introduce il necessario confronto con il contesto storico.
Cagnaccio di San Pietro. Dopo l'orgia, 1928, olio su tela, Collezione privata
Il ‘ritorno all’ordine’ che caratterizzò le arti all’indomani della fine della Prima guerra mondiale, e che trovò una prima definizione negli articoli della rivista Valori plastici, fondata nel 1918 da Mario Broglio, orientava verso una moderna lettura dei valori dell'arte del passato, da Giotto a Masaccio a Piero della Francesca, verso il ritorno al mestiere dopo le molte deroghe dei gruppi d’Avanguardia. Ma la necessità di dare un nuovo ordine all’uomo e alla società si traduceva, in quegl’anni, anche nella Marcia su Roma del ’22, che si concluse con l’incarico a Mussolini, da parte di Vittorio Emanuele III, di formare un nuovo governo. Gli sviluppi del Fascismo negli anni Venti e Trenta modellarono una società in cui i valori dell’italianità erano continuamente ribaditi, ma gli artisti si tennero spesso in disparte, tranne naturalmente Sironi, che divenne un singolare interprete del suo tempo, come vedremo di seguito. I temi della pittura dei “realisti magici” sono ben rappresentati dai titoli delle sale della mostra: Il tempo sospeso, Il paesaggio come sogno, La stanza dei giochi è vuota, La vita segreta delle cose, Fermo immagine: l’ambiguità del reale. La realtà quotidiana, osservata e vissuta a lungo, con la paziente e tenace volontà di dare una nuova, autentica forma a uomini e oggetti, è piuttosto lontana dall’ostentazione di forza, potenza e autodeterminazione che si poteva leggere e vedere sui giornali del tempo o nelle opere destinate agli edifici del potere. Il tono misterioso, a volte struggente, delle opere propone una diversa, e senza dubbio originale, chiave di lettura del periodo tra le due guerre, da parte di chi non si accontentava di restare alla superficie delle cose, ma voleva penetrare nell’enigma dell’uomo.
Mario Sironi, Sintesi e grandiosità, Museo del Novecento, fino al 27.03.22
La retrospettiva ripercorre l’opera di Sironi a sessant’anni dalla morte ed è curata da Elena Pontiggia e Anna Maria Montaldo, direttrice del Museo del Novecento.
La grandezza dell’artista s’incontra fin dalla prima sala, nei penetranti volti e ritratti, a matita e carboncino, degli anni giovanili. La sua attitudine a sperimentare forme nuove è documentata dalle opere futuriste e dal suo personale “ritorno all’ordine” che, negli anni Venti, lo vede impegnato in un serie di paesaggi urbani, quelli che oggi chiamiamo le sue “periferie”, dove la città, verosimilmente le zone industriali di Milano, con i primi palazzoni anonimi, le rotaie dei tram, le rare presenze umane (come in Cavallo bianco e molo del 1920) sono lo specchio dei faticosi anni della ripresa post-bellica, alla ricerca di una nuova identità umana e sociale. Emblematico è il "Paesaggio urbano col tram" del 1925-28, esposto alla Biennale di Venezia del 1928.
Sironi, Il molo, 1921, Collezione privata
E’ opportuno ricordare, però, che già nella Biennale di Venezia del 1924, l’opera che divenne una sorta di manifesto del nuovo stile, quello novecentista del gruppo sarfattiano, è L’architetto di Sironi, l’immagine sintetica del costruttore, dell’artista “classico” moderno, ma anche di tutti coloro che volevano essere parte della nuova società italiana, alla ricerca di radici forti, portatrici di valori certi e positivi.
Sironi, Paesaggio urbano, 1954
Il Sironi degli anni Trenta si dedica alla pittura monumentale e pubblica il Manifesto della pittura murale nel 1933 (vedi la Vittoria alata, il gigantesco studio per l’aula magna della Sapienza di Roma), ma non dimentica mai lo studio della figura umana, grande protagonista, tra ombre e luci, potenza e fragilità, delle opere di tutto il Ventennio, fino all’ultimo drammatico periodo della sua vita. Sironi nel 1956 scriveva: “Nella mia pittura e in tutta la mia opera il vero protagonista è l’uomo con tutti i suoi pregi e i suoi difetti. L’uomo è l’oggetto più bello e misterioso della Natura.”
Le opere di questi anni, che seguono la fine della guerra e la morte della figlia (1948), sono pittoricamente nuove, con pennellate irregolari e frammentarie, così come le forme appaiono scomposte e collocate in un ordine quasi casuale, espressione della durezza dei tempi, ma anche dell’inesausta fiducia nella bellezza dell’arte.
A cura di:
GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.