MAX ERNST, o l'inesauribile piacere della sperimentazione

di Giuseppina Bolzoni

 

Nelle sale di Palazzo Reale, a Milano, fino al 26 febbraio ’23, è allestita la prima retrospettiva italiana di un artista eclettico, tra i più influenti del XX secolo in Europa e in America, Max Ernst (Brühl, Germania, 1891 – Parigi, 1976). Curata di Martina Mazzotta e Jürgen Pech, la mostra raccoglie, da musei, fondazioni e collezioni private, in Italia e all’estero, circa ottanta dipinti, oltre a sculture e ad un gran numero di disegni, collages, fotografie, materiali di ogni tipo.

André Breton, uno dei fondatori del Surrealismo, insieme a Paul Eluard e all’artista stesso, lo definì “uomo delle possibilità infinite”: è proprio questa la sensazione che rimane una volta terminata la visita alla mostra di Ernst, che appare come un complesso attraversamento di mondi “visivi”, realizzati di volta in volta con materiali e tecniche diversi.

Non è certo un caso che egli sia stato un grande ammiratore di Leonardo da Vinci: nel 1936, pubblicò il saggio Al di là della pittura, nel quale citava dei brani dal Trattato della pittura, in particolare quello in cui l’artista rinascimentale invitava a soffermarsi a guardare le macchie sui muri o la cenere del focolare, le nubi o i ruscelli per giungere a dire che “(…) se tu le consideri attentamente, vi scoprirai invenzioni assai ammirevoli, dalle quali il genio del pittore può trarre partito, per comporre battaglie d’animali e uomini, paesaggi o mostri, demoni e altre fantastiche cose che ti faranno onore. In queste cose confuse, il genio si risveglia a nuove invenzioni (…).”

Come in Leonardo, il mondo esteriore e quello interiore sono i continui suggeritori di immagini, associazioni, forme metamorfiche che chiedono di essere tradotte, con mezzi adeguati, in opere concrete.

Nella sala 4, possiamo ammirare uno dei capolavori di Ernst, Il Bacio (1), probabilmente ispirato alla Madonna e Sant’Anna di Leonardo (2) del Louvre: nella struttura vagamente piramidale, che creano le forme fluide intrecciate al centro della tela, scorgiamo un’eco dell’abbraccio di S. Anna che si prolunga in quello di Maria a Gesù. L’agnellino è sostituito da Ernst con il nibbio, uccello già utilizzato da Freud nell’interpretazione del dipinto.

bacio     1 M. Ernst, Il Bacio, 1927, olio su tela, 129x161,2 cm., Coll. Peggy Guggenheim, Venezia

leonardo          2 Leonardo, S. Anna, Vergine, Gesù e Giovannino, olio su tav., 1510, Louvre, Parigi

 

A Leonardo, l’artista dedica anche una grande tela negli anni ’50, collocata nella sala 8, Memoria e meraviglia, dove vengono presentate opere che sono il frutto del costante incontro tra passato e presente, antico e moderno, culture occidentali ed orientali che Ernst riproporrà fino alla fine della sua carriera: il Progetto per un monumento a Leonardo da Vinci (1957, olio su tela, 130x97 cm., Coll. Priv., Francia) fa emergere, da un fondo rosso cupo in cui si scorgono strane forme, una sorta di maschera, propria dei nativi americani, con la quale s’intende ricordare il genio italiano.

Il metodo di Ernst prevede sempre lo scardinamento delle forme che siamo abituati a vedere, presentate con tecniche altrettanto spiazzanti ed inusuali. Ma qual è l’origine di tutto questo?

La biografia dell’artista è sicuramente illuminante: dopo aver lasciato gli studi di Filosofia all’Università di Bonn, si dedica interamente all'arte, interessandosi anche alla psicologia e all'arte di chi è affetto da disabilità o disturbi psichici. Nel 1911 conosce August Macke e si avvicina all’Espressionismo, ma il viaggio a Parigi, nel 1913, è decisivo per la sua carriera: gli permette di incontrare Guillaume Apollinaire e Robert Delaunay e, l’anno successivo, Jean (Hans) Arp con il quale stringerà un'amicizia che durerà tutta la vita.

Dopo la guerra, a Colonia, fonda con Johannes Theodor Baargeld il gruppo Dada, al quale si uniscono Arp e altri artisti. E’ proprio il dadaismo quella “rivoluzione copernicana”, che dà il nome alla sala 1, che sovvertirà temi e tecniche da questo momento in poi.

Gli anni parigini, che prendono l’avvio dalla prima sua mostra nella capitale francese nel 1921 alla Galerie Au Sans Pareil, sono particolarmente intensi e, dopo aver conosciuto la Metafisica di Giorgio De Chirico, nel 1924 è tra i firmatari del Manifesto del surrealismocon Paul Eluard e André Breton.

A proposito di atmosfere metafisiche e di trasposizioni di oggetti in luoghi e dimensioni impossibili, all’ingresso della mostra accoglie il visitatore Oedipus Rex (3), un dipinto che riassume situazioni già proposte da De Chirico: enormi dita di una mano, che fuoriescono dalla finestra di una casa, sono trafitte da aghi, come la noce che sorreggono. A destra, due teste di animali emergono da una scatola, una mongolfiera vola sullo sfondo. L’apparente profondità del dipinto non deve trarre in inganno: lo spazio è del tutto mentale e la chiave di lettura implica aspetti psicologici, probabilmente legati anche all’impulso sessuale. Quello che è evidente è che l’artista chiede di mettere in discussione, all’indomani del caos della Grande guerra e come già avevano fatto metafisici e dadaisti, le nostre certezze razionali e percettive, persino tattili, per trovare nuove strade d’interpretazione del reale

rex
3
M. Ernst, Oedipus Rex, 1922, Collezione privata, Svizzera

 

Nel 1925 Ernst, che ora guarda alla natura come a una infinita fonte d’ispirazione e ricerca, crea i primi frottage, alcuni pubblicati nel volume Histoire naturelle (1926), di cui vediamo delle bellissime tavole nella sala 5 I quattro elementi. La genesi della tecnica del frottage è raccontata dallo stesso artista: “Il 10 agosto 1925 un’insopportabile ossessione visiva mi fece scoprire i mezzi tecnici che mi hanno permesso una vasta interpretazione pratica della lezione di Leonardo (sino a Botticelli). Partendo da un ricordo d’infanzia, durante il quale un pannello in finto mogano situato di fronte al mio letto aveva avuto il ruolo di provocatore ottico di una visione di dormiveglia, e trovandomi, con un tempo piovoso, in un albergo in riva al mare, fui colpito dall’ossessione che esercitava sul mio sguardo irritato il pavimento di legno, le cui scanalature erano state accentuate da migliaia di lavaggi. Mi decisi allora ad interrogare la simbologia di questa ossessione e al fine di aiutare le mie facoltà meditative e allucinatorie, feci una serie di disegni sulle assicelle di legno, posando su di esse, a caso, dei fogli di carta che mi misi a strofinare con la punta della matita. Osservando attentamente i disegni così ottenuti, le parti oscure e quelle in dolce penombra, fui sorpreso dall’intensificazione subitanea delle mie facoltà visionarie e dalla successione allucinante d’immagini contraddittorie che si sovrapponevano le une alle altre con la persistenza e la rapidità proprie dei ricordi amorosi”. (M. Ernst, Au delà de la Peinture, in Cahiers d’Art, Parigi, 1937)

frottage
    4 Tavole da l’Histoire naturelle, frottage, 1926

 

Nella stessa sala 5 è collocata una delle più grandi ed originali opere di Ernst, La foresta (5), appartenente ad una serie dedicata allo stesso tema, forse di origine romantica e dovuta anche al fascino che provò l’artista per G. D. Friedrich, uno dei maggiori pittori romantici tedeschi.

Qui viene utilizzata la tecnica del grattage o raschiamento, che prevede che su tele preparate con materiali come fili di ferro, paglia da sedie, foglie, bottoni, o pezzi di spago, venga steso il colore a olio, successivamente graffiato per far emergere segni e forme sottostanti

foresta 
 5 La foresta, 1927-28, olio su tela, 96,3x129,5 cm.,  Coll. Peggy Guggenheim,Venezia

 

In quest’opera si crea una parete di alberi quasi impenetrabile, tra i quali si fanno largo un disco solare e l’apparizione di un uccello che volteggia tra il fogliame: la foresta è un diaframma tra chi guarda e la profondità infinita, che deve essere esplorata con l’immaginazione. Frottage e grattage sono due diversi modi di “far parlare” la materia, di lasciar emergere le immagini, con il minimo intervento dell’artista, rispecchiando l’”automatismo psichico” proclamato dai surrealisti nel loro Manifesto.

La carriera dell’artista è ancora molto lunga e ricca di opere ed avvenimenti: negli anni Trenta viaggia in America, dove espone per la prima volta alla Julien Levy Gallery di New York (1932), e dove si rifugerà, scappando dalla prigionia in Francia (1939, considerato nemico straniero). Nel 1941 sposa Peggy Guggenheim, ma il grande amore viene nel 1946 con Dorothea Tanning, con la quale torna in Francia nel 1953. Nel 1954 vince il Premio per la pittura alla Biennale di Venezia e nel 1975, l’anno prima della morte, il Museo Solomon R. Guggenheim di New York gli dedica un’importante retrospettiva, presentata anche a Parigi.

Naturalmente è impensabile riassumere, anche per sommi capi, il percorso della mostra, posso solo ricordare che è strutturata in 4 grandi periodi, a loro volta suddivisi in 9 sale tematiche:

  1. La rivoluzione copernicana;
  2. All’interno della visione;
  3. La casa di Eaubonne - ricostruzione, integrata con frammenti originali, della casa affrescata in cui Ernst visse il ménage a trois con Gala e Paul Éluard -;
  4. Eros e metamorfosi;
  5. I quattro elementi;
  6. Natura e visione;
  7. Il piacere di creare forme - il piacere dell’occhio;
  8. Memoria e Meraviglia;
  9. Cosmo e crittografie.

 

C’è solo un ultimo suggerimento che vorrei dare: ai visitatori viene offerta la possibilità di esplorare l’iconografia della Pietà attraverso l’esposizione dei tre calchi storici dei capolavori di Michelangelo dedicati a questo tema, nella Sala delle Cariatidia ingresso libero, fino all’8 gennaio.

In mostra, nella sala 8, è esposto un dipinto dal titolo Pietà (6) che Ernst realizza nel ’23 come metafora della visione. I tre personaggi presenti, infatti, sarebbero le tre arti figurative (disegno, scultura e pittura), ma certamente l’ispirazione è nata dalle Vesperbild, immagini del vespro, tedesche, su cui anche Michelangelo ha meditato per la sua prima Pietà in Vaticano. Il secondo titolo dell’opera può riferirsi al fatto che faccia pensare al crepuscolo o alla notte (alla sera del Venerdi Santo in cui Cristo fu staccato dalla croce e deposto nel sepolcro).

ernst   

6 M. Ernst, Pietà o La rivoluzione la notte, 1923, olio su tela, 116,2x88,9 cm., Tate Gallery, Londra

 

Salvador Dalí, nel 1932, scrisse a proposito di quest’opera: “Mi piace immaginare che il punto di partenza delle esperienze surrealiste sia il titolo del quadro di Max Ernst La révolution la nuit”.

 

A cura di:

GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.

CDOLogo DIESSEDove siamo