BILL VIOLA, IL TEMPO E L’ESPERIENZA di Giuseppina Bolzoni

 

Uno dei maggiori, se non il più grande videoartista vivente, Bill Viola, attraverso la sapiente cura di Kira Perov, moglie dell’artista e direttore esecutivo del Bill Viola Studio, offre una selezione di quindici suoi capolavori all’interno delle sale di Palazzo Reale, fino al 25 giugno 2023.

Inutile sollecitare una visita, di insegnanti e studenti e di tutti coloro che, conoscendo già Viola o non avendo ancora incontrato i risultati del suo lungo percorso, durato circa 40 anni, saranno sorpresi da quel che vedranno. Fin dalla prima sala, non sono chiamati in causa solo gli occhi, ma anche l’udito e il tatto, perché l’artista coinvolge, si potrebbe dire, “avvolge”, l’osservatore per portarlo in un'altra dimensione temporale e spaziale, dove forme in movimento lentissimo, suoni, sensazioni di freddo e caldo, di morbidezza e solidità, peso e leggerezza arrivano di continuo “addosso” a chi è davanti agli schermi. L’altissima definizione delle immagini, i singolari “effetti speciali”, la profondità dei temi trattati che Viola propone sono una sfida per tutti noi, che viviamo in un tempo di facili e superficiali emozioni, da consumare in fretta.

Forse, una delle sfide più impressionanti è quella dell’opera The Veiling, che presenta dei veli sospesi verticalmente al soffitto attraverso i quali passano le immagini, portate da due proiettori, uno di fronte all’altro, all’estremità della sala, direttamente nello spazio percorribile. Dallo schermo alla realtà tridimensionale, senza “trattenere” le forme: c’è un modo più convincente per sostenere l’immaterialità della visione? E, nello stesso tempo, di “farci partecipare” a ciò che vediamo?

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Bill Viola, The Veiling, 1995,  Photo Kira Perov © Bill Viola Studio

Torniamo alla prima sala: attraverso quattro opere - The Greeting (1995), The Quintet of the Silent (2000), Catherine’s Room (2001), Four Hands (2001) – abbiamo l’opportunità di incrociare alcune delle diverse direzioni d’indagine di Viola.

The Greeting (1995) e Catherine’s Room (2001) riportano agli anni iniziali della sua carriera, ai “18 mesi trascorsi a Firenze, dove incontra per la prima volta l’arte rinascimentale”, e al progetto di ricerca del Getty, nel 1997, dove esplora l'iconografia cristiana antica, l'immaginario medievale, rinascimentale e manierista.

Nel primo caso, la Visitazione di Pontormo, capolavoro manierista della prima metà del ‘500, viene interpretata da tre donne in abiti moderni, ma l’intensità dell’incontro si approfondisce via via che il tempo scorre (più di 10 minuti), anche grazie alla presenza e al suono del vento che sembra portare un misterioso annuncio.

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Bill Viola, The Greeting, 1995

Nei 5 monitors di Catherine’s Room vediamo simultaneamente le scene di vita quotidiana di una donna solitaria che svolge una serie di rituali quotidiani, dalla mattina alla sera: il tempo della giornata e, per estensione, della vita, lo vediamo nello stesso istante in cui portiamo lo sguardo sulle cinque piccole stanze, così come, nelle predelle delle tavole o dei polittici antichi, potevamo riassumere le vicende esemplari dei personaggi sacri o di un santo. Come scrive Kira Perov nella prefazione al catalogo: “Il tempo è malleabile nelle mani di Bill Viola, dove ogni dettaglio del movimento e dell'espressione del viso e del corpo è visibile, dove un momento diventa eternità.”

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Bill Viola, Catherine’s Room, 2001

In The Quintet of the Silent (2000), analogamente a quanto avviene in The Greeting, Viola pone l’attenzione sui “minimi dettagli e le sottili sfumature di espressione” di un gruppo di cinque uomini che reagiscono ad un evento che noi non vediamo, ma di cui ci fanno partecipi più lo slow motion estremo procede.

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Bill Viola, The Quintet of the Silent, 2000

In Four Hands (2001) sono le mani di un ragazzo, di una donna, di un uomo di mezza età e di una donna anziana a “parlare”, con la ritualità dei loro gesti, tratti da fonti diverse (mudra buddisti, tavole di chirologia inglese del XVII secolo): anche qui vediamo il tempo che scorre e rende più energici o fragili i movimenti, più tesa o raggrinzita la pelle. Attraverso un semplice dettaglio del nostro corpo leggiamo la complessità delle emozioni che una vita intera può contenere.

Anche The Raft (maggio 2004), grande installazione visibile in una delle sale centrali della mostra, “ricorda l’importanza della collaborazione umana per poter sopravvivere a catastrofi naturali o crisi inaspettate”, riportando alla memoria un capolavoro della pittura romantica francese, quella Zattera della Medusa (1818) di Géricault in cui tutta l’umanità sofferente, schiacciata dalla natura come dalla storia, sembra ancora resistere e cercare una salvezza.

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Bill Viola, The Raft, 2004

Ma c’è almeno un secondo grande tema ricorrente dell’arte e dell’esperienza esistenziale dell’artista americano che sottende a molte opere presenti: quello del passaggio dalla vita alla morte e viceversa, ovvero il misterioso ritorno alla vita dopo la morte, memore, probabilmente, di quel salvataggio di cui Viola fu oggetto a 6 anni, quando rischiò di annegare in un lago e fu fatalmente “ripescato”. L’elemento liquido dell’acqua, che può dare la vita come la morte, accompagna l’uomo fin dal ventre della madre; passare attraverso di esso, come in un rinnovato rito battesimale, è segno di un radicale cambiamento di condizione: è questo il tema di Emergence (2002), ispirato ad un affresco di Masolino da Panicale intitolato Pièta (1424), per la chiesa di San Giovanni Battista a Empoli, con il Cristo in piedi nel sepolcro, affiancato dalla Madonna e da San Giovanni. Nel video, un giovane fuoriesce da una cisterna traboccante d'acqua, viene adagiato a terra da due donne, per continuare il suo “sonno”. E’ una resurrezione o una deposizione del sepolcro che eternamente si ripete?

Più complessa è l’opera Ocean Without a Shore (2007), opera nata a Venezia nella chiesetta sconsacrata di San Gallo: sopra tre altari sono posti gli schermi che diventano porte di passaggio dei morti da e verso il nostro mondo. La porta è, anche in questo caso, un velo d’acqua, che si rende visibile solo nel momento del passaggio dell’uomo o della donna attraverso di esso.

Il pubblico si sente interpellato da una serie di persone che si avvicinano lentamente dall’oscurità e si muovono verso la luce, dove ci troviamo anche noi, ma da cui si allontanano stupiti o addolorati, per tornare nel buio.

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Bill Viola, Ocean Without a Shore, 2007

Nella serie Martyrs (2014), i protagonisti devono resistere alla furia dei quattro elementi naturali: Terra, Aria, Fuoco e Acqua.

“Martire” viene dal greco e vuol dire “testimone” e, per l’artista, queste persone sono testimoni di valori fondamentali della nostra cultura. Nel mondo di oggi, i mass media trasformano tutti noi in testimoni delle sofferenze altrui.  

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Bill Viola, Martyrs, 2014

Le vite passate dei martiri, improntate all’azione, possono contribuire a fare luce sull’inerzia della vita moderna. Esemplificano inoltre la capacità dell’essere umano di sopportare la sofferenza, le difficoltà e perfino la morte pur di restare fedele a quelli che sono i suoi valori, credenze e principi.

 Il lungo viaggio di Viola, iniziato a New York nel 1951, dallo studio della musica elettronica, per giungere alla costruzione di elaborate scene teatrali, all’arte cinematografica, con ambientazioni, attori, luci, fotografie e un abile lavoro di regia, dimostra come, attraverso il mezzo digitale, un mondo visivo immateriale, si possa parlare della fragilità e della tenacia della natura umana, e delle “infinite possibilità della psiche e dell’animo umano”. Lo spettatore disponibile a compiere questo viaggio interiore potrà certamente conoscere meglio sé stesso e il mondo intorno a lui.

Nell’ultima sala, Fire Woman (2005) ci mostra inizialmente la sagoma oscurata di una figura femminile davanti a un muro di fiamme, ad un certo punto si getta in un elemento liquido, che prende sempre più spazio e, da incandescente, diventa oro puro per poi placarsi nel blu di un mare pieno di pace. E’ sicuramente la sua opera più “pittorica”.

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Bill Viola, Fire Woman, 2005

Il lavoro dell'artista, dice Viola, mi ha insegnato “che il vero materiale grezzo non sono la telecamera e il monitor, ma il tempo e l'esperienza stessa, e che il vero luogo in cui esiste l'opera non è la superficie dello schermo, ma la mente e il cuore della persona che la osserva. E' là che tutte le immagini vivono". 

 

 

A cura di:

GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.

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