MATERIALI PER L'INSEGNAMENTO - ARTE
ANTONELLO DA MESSINA (1430 ca.-1479)
ANTONELLO DA MESSINA (1430 ca.-1479)
dal 21.02.2019 al 02.06.2019
Palazo Reale, Milano
La mostra, aperta a Palazzo Reale di Milano fino al 2 giugno 2019, curata da Giovanni C. F. Villa, presenta al grande pubblico Antonello da Messina attraverso gli occhi di Giovan Battista Cavalcaselle, grande storico dell’arte del XIX secolo, che nei suoi taccuini (ne scrisse 32, oggi conservati alla Biblioteca Marciana di Venezia) ci ha lasciato disegni e note, frutto dei suoi viaggi e della sua ricerca di fonti e di opere. Di origini venete, si reca in Sicilia tra il 1859 e il 1860, studia i pochi documenti raccolti dall’erudito messinese Gaetano La Corte Cailler, che riguardavano la famiglia del pittore, tra i quali il testamento di Antonello, datato febbraio 1479. I terremoti di Messina, quello del 1783 e il più rovinoso del 1908 hanno spazzato via, oltre che l’intera città, anche le esigue tracce dell’artista.
Di Antonello, quindi, fino al 1860, si conosceva poco, poche opere e ancor più ridotte notizie biografiche: è proprio grazie al lavoro di lenta ricostruzione della carriera del pittore siciliano operata da Cavalcaselle, che possiamo apprezzare il corpus dei dipinti di questo singolare artista.
Il metodo utilizzato dallo studioso è eccezionale: riproduzioni a penna, con tratto sicuro, di intere opere e di singoli particolari delle figure, dello spazio, degli oggetti disseminati nei dipinti, corredate di commenti che ne descrivono struttura, forme e colori.
Nel foglio con il disegno di uno dei famosi Ecce Homo di Antonello, Cavalcaselle riporta, con grande precisione, l’insieme della figura a mezzo busto, ma è nel foglio a fronte che si apprezza la capacità disegnativa ed interpretativa dello studioso, che si sofferma sui dettagli del volto sofferente, quasi volesse catturarne l’intensità.
In mostra possiamo ammirare l’Ecce Homo o Cristo alla colonna del 1473-76, conservato al Collegio degli Alberoni di Piacenza.
Difficile non soffermarsi su tutte le opere esposte, perché tutte sono degne di nota e permettono di verificare le incredibili doti pittoriche di Antonello, ma si può tentare di seguire un percorso, anche se diverso da quello proposto dalle sale, che ci permetta di mettere a fuoco come si è formato ed è cresciuto il genio del grande siciliano, a partire dalla Crocifissione del 1460 ca., proveniente dal Museo Nazionale Brukenthal di Sibiu in Romania e attribuita ad Antonello, prima da Karl Voll nel 1902 e poi da Bernard Berenson nel 1932. L’impostazione della scena, con i tre crocifissi che si stagliano su un paesaggio marino, e i tratti stilistici avevano fatto pensare a lungo ad un artista fiammingo, ma un’attenta osservazione dello sfondo ha permesso di riconoscere un paesaggio messinese e le Eolie (non visibili nella realtà): Antonello era, nel 1460, appena giunto in città con la famiglia da Napoli, dove era avvenuta la sua formazione, nella bottega di Colantonio (dal 1445 al ’55) e a contatto con l’ambiente della cultura artistica locale, in cui artisti fiamminghi e borgognoni erano molto apprezzati. Difficile sapere cosa sia accaduto negli anni successivi, ma tra il 1470-“75 ritroviamo un Antonello maturo che realizza il trittico con la Madonna con Bambino, il San Giovanni Battista - acquistati nel 1996 da Antonio Paolucci, allora Ministro dei Beni Culturali - e il San Benedetto, ricomposto per la mostra e conservato agli Uffizi. Sono proprio gli anni Settanta i meglio documentati, con il San Girolamo nello studio (1474-1475) della National Gallery di Londra e i numerosi e sorprendenti ritratti (Ritratto d’uomo (1465-1476) dalla Fondazione Culturale Mandralisca di Cefalù, Ritratto d’uomo o Ritratto Trivulzio (1476) dal Museo Civico d’Arte Antica di Torino, Ritratto di giovane uomo (1478) dal Museo statale di Berlino). Se nel dipinto con S. Girolamo, la figura appare come il punto di fuga di una complessa costruzione spaziale, allusione al luogo spirituale della Chiesa, nei Ritratti il primo piano è occupato interamente dal busto del personaggio, per lo più collocato di tre quarti, e nessuno può sottrarsi allo sguardo, a volte serio, altre ammiccante o pensoso che sembra interpellare direttamente chi guarda. Più che la straordinaria capacità di costruire stereometricamente le teste, grazie al movimento sapiente della luce sulle superfici, colpisce la naturalezza con cui gli occhi o la piega delle labbra suggeriscono non solo l’esatta effige dell’uomo (memorabile il commento di Leonardo Sciascia su un ritratto di Antonello: “Somiglia. Ecco tutto”), ma decisamente l’anima del ritratto.
Infine, su due opere non è possibile non fermarsi a lungo, la Vergine annunziata (o Annunciata) del 1476 conservata alla Galleria Nazionale di Palermo, realizzata probabilmente dopo l’importante soggiorno veneziano, e il Cristo in pietà sorretto da tre angeli (1474-1476 ca.) del Museo Correr di Venezia. Osservando la prima, vengono sempre in mente, almeno a me, ma spero anche a chi legge, le parole di Roberto Longhi, che sono una sintesi perfetta della geniale intuizione di Antonello, che nella sola Maria, una giovane donna dai tratti mediterranei, ha racchiuso il mistero e la grandezza del momento: “Ed ecco l’Annunciata di Palermo, la piramide umana. E’ il gesto architettonico della Vergine che compie il miracolo stirando con la sinistra il manto ad includersi in una piramide assoluta rotante sopra un perno cristallino invisibile, motore immobile, fino ad incuneare verso di noi lo spigolo che iniziandosi nella piega sulla fronte, sfila per lo spigolo facciale, discende oltre l’angolo chiuso del panneggio fino alla prominenza dell’inginocchiatoio. Ma la destra s’avanza inclinata a tentare cautamente il limite possibile del volume; trovatolo s’arresta, mentre, contrapposto, il libro vibra nell’aria il fendente affilato del suo foglio candido. Nell’interno, sulla colonna del collo si depone lentamente l’ovoide incluso del viso su cui virano come sopra un pianeta larghi diaframmi d’ombre regolari.” (R. Longhi, Breve ma veridica storia della pittura italiana, Sansoni, 1914).
La Pietà di Venezia, pur non essendo la prima volta che la vedevo dal vero e pur essendo stata vittima di un restauro devastante, mi ha sorpreso per il taglio compositivo: Cristo è seduto all’estremità della cassa, sulla lastra posta trasversalmente, e su di essa si appoggia anche uno degli angeli che faticosamente lo sostiene; le gambe vengono in avanti, tentando il limite della superficie dipinta, e sono tagliate all’altezza dei piedi, che si potrebbe dire che stanno nel nostro “spazio”. Questo Cristo ci viene letteralmente incontro, chiede di essere non solo guardato, ma anche toccato, accarezzato, sostenuto, come fanno i piccoli angeli. Le loro ali aperte si stagliano contro il cielo sereno di Messina, un paesaggio noto e amato dall’artista. Ma la nitidezza con cui lo sfondo è realizzato non ha nulla a che fare con la meticolosità fiamminga (che forse lo aveva affascinato in gioventù). Giuseppe Frangi, a questo proposito scrive: (i fiamminghi) “Più coglievano la realtà nel suo tessuto molecolare, più la allontanavano e la rendevano paradossalmente irreale. Antonello invece compie un’operazione esattamente opposta. Svela tutto, rende tutto pubblico e partecipato.” Antonello ci chiama dentro l’opera, ci permette di entrare in contatto diretto con quel che vediamo, chiede quella stessa schiettezza con cui lui dipinge.
A cura di:
GIUSEPPINA BOLZONI, laureata nel 1985 presso l’Università del Sacro Cuore di Milano, dal 1986 insegna Storia dell’Arte al liceo artistico della Fondazione Sacro Cuore di Milano, ove ha contribuito all’elaborazione del progetto sperimentale su base quinquennale.