Daniele Mencarelli,  Tutto chiede salvezza

Mondadori, 2020

€ 19.00 (e-book € 4.99)

 

I romanzi di Daniele Mencarelli ci portano dentro una realtà dura -malattia, disagio psichico, follia- ma la discesa non ci lascia sul fondo. Potremmo sintetizzare così l’aura specifica di queste narrazioni in cui l’oggetto, di per sé doloroso, viene avanti attraverso una messa a fuoco soggettiva – si dà conto di esperienze personali – la cui peculiarità è però la trasparenza di un impegno costante a non tradirlo. Basterebbe poco per spettacolarizzare, per  rincarare la dose dell’orrore o dell’abiezione o, al contrario, per negarli in un idillio che li annulli, facendo tornare tutti i conti. Qui invece il dolore si accampa pervasivo in una sorta di quotidiana normalità e tuttavia emerge nella sua potenza interrogativa: normale e straordinario insieme. Tale effetto è nei due romanzi anche il risultato del costante contrappunto tra la voce di coloro che nell’ospedale dei bambini o nel reparto psichiatrico lavorano da molto tempo,  e quella stupefatta del narratore che vive tutto per la prima volta, squassato fin nel profondo, incapace di credere che la presa di coscienza del tessuto dolente del mondo possa condurre ad altro che al sostanziale rifiuto della vita. Siamo a un passo dall’esito banale, dal copione consueto che vorrebbe l’insensibilità burocratica degli operatori contrapposta all’umanità autentica dello scrittore; ma Mencarelli respinge  consapevolmente questa prospettiva. Anzi, attraverso il rapporto con gli uomini delle pulizie dell’ospedale del Bambin Gesù, come nei dialoghi con gli infermieri del reparto psichiatrico in Tutto chiede salvezza, il protagonista è sempre nell’atto di chi sa di dover imparare qualcosa: l’impossibile accettazione. I normali gesti quotidiani di gente semplice che convive con il disastro altrui appaiono così come una grammatica dell’accettazione, anche del proprio, di disastro. Nel secondo romanzo non c’è un episodio definitivo e luminoso come l’incontro tra la suora e il bambino deforme de La casa degli sguardi. E infatti qui si racconta una tappa precedente della via crucis dell’autore, e il libro si chiude senza farci sapere nulla della fine della storia. Restiamo con questa intuizione, che la vita calpesta e ferita, che i nostri goffi rimedi, nella loro irrimediabile, gridata, insufficienza, siano, appunto, la vita, e che, incredibilmente, la si possa amare. L’autore racconta in prima persona di sé ventenne, ricoverato in un reparto psichiatrico in trattamento sanitario obbligatorio, dopo avere semidistrutto casa sua in un delirio propiziato dagli stupefacenti che trova però la sua radice nel carico insopportabile di dolore che le giornate, gli incontri, le storie in cui si imbatte gli lasciano addosso. Così che la frase unica e fissa proferita dal primo dei compagni di camera di cui fa la conoscenza – Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia!-  è in qualche modo la sintesi del libro.  Siamo al di là della constatazione del dolore universale, siamo al grido. Tutto chiede salvezza .

Ma chi ha ‘perso l’anima’? Non solo il povero alienato che probabilmente non sa quello che dice, non solo il protagonista che si sforza di cancellarla con tutti gli ausili chimici possibili. Ha perso l’anima, o rischia di perderla, la cultura in cui viviamo, rappresentata nel libro soprattutto dai medici. E su questo fronte Mencarelli pone un tema ineludibile, quello del confine problematico e sfuggente tra il disagio psichico e l’interrogativo sul senso dell’esistenza, che al primo rischia di essere assimilato. Se la domanda di significato non ha niente a che fare con la natura del reale ma è soltanto, per così dire, un dispositivo del cervello umano, dispositivo anche utile, entro certi limiti, alla vita e al progresso, ma  soggetto ad andare fuori controllo e a divenire fissazione, quando s’avventuri ad agognare risposte che la mentalità scientifica ci ha svelato come insensate… allora, a quel punto, la domanda di senso è un disturbo, la risposta è una pastiglia.

O forse questa cosa che chiamo salvezza non è altro che uno dei tanti nomi della malattia, forse non esiste e il mio desiderio è solo un sintomo da curare. A terrorizzarmi … è… il dubbio che tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita, per sbaglio.

Mencarelli non nega affatto la follia, mai si permette di confondere i piani: la malattia è malattia, va curata, o almeno accolta e accudita. Tuttavia un regalo non piccolo di questo libro è anche questa denuncia di una indebita estensione che, se non la pratica medica, pervade però innegabilmente la mentalità comune. Il mondo e la vita non hanno senso o scopo al di fuori della catena delle cause efficienti. L’uomo consapevole e maturo lo accetta; l’uomo scarsamente consapevole non se ne accorge; gli altri si curano ‘spegnendo’ la domanda.

La discesa agli inferi di Mencarelli è, sotto questo profilo, una testimonianza preziosa di quello che chiamiamo ‘disagio giovanile’ , per lo più descrivendolo dall’esterno; una testimonianza miracolosamente non ridotta, non risolta, divenuta capace di dirsi senza tradirsi. La testimonianza di chi cerca faticosamente le ragioni per vivere e, anche se non le ha ancora trovate, si rifiuta di passare a gestire la vita.


A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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