Intrecci diabolici in Macbeth

E’ la più breve delle grandi tragedie di Shakespeare ma non la meno interessante. Composta probabilmente intorno al 1605, quando re d’Inghilterra era Giacomo I, già Giacomo VII di Scozia.  La vicenda è nota, Macbeth è un generale dell’esercito scozzese e contribuisce alla vittoria  contro gli invasori norvegesi. Esaltato dalla vittoria ottenuta e dal generale riconoscimento del suo valore aspira al regno, ma è frustrato in questa sua ambizione dal re stesso, che nomina un suo proprio figlio come erede futuro al trono. Sostenuto dalla moglie, Lady Macbeth, ucciderà il sovrano, diventerà re, ma il suo successo, ottenuto con l’inganno e il regicidio, lo lascerà alla fine solo, odiato, fino all’ inevitabile destino e alla morte.
I temi della tragedia sono certamente l’ambizione e la sete di potere, ma non solo.  Accanto si ritrovano quelli dell’ambiguità e della confusione, dell’amore tra Macbeth e la moglie, quello delle conseguenze che accompagnano ogni atto, in particolare, in questo caso, quelli malvagi. E in tutta l’opera permane una tinta di mistero, di magia, di alchemica conoscenza, tanto amata dal re dell’epoca, lo scozzese Giacomo I.

All’inizio, prima scena, ci imbattiamo subito in questa atmosfera di dubbio e confusione, di ambiguità. “il bello è brutto e il brutto è bello”. A parlare una delle tre streghe che compaiono prime sul palcoscenico. Subito dopo, davanti al re Duncan e al suo seguito si presenta un soldato coperto di sangue e racconta l’esito della battaglia. Ancora, ritroviamo il tema della ambiguità, la battaglia era doubtful, in dubbio, e solo il valore di Macbeth rese possibile la vittoria.
Di ritorno dal campo di battaglia, accompagnato dall’amico Banquo, Macbeth incontra le tre streghe della prima scena, che gli profetizzano maggiori ricchezze e un futuro da re. Ma a Banquo diranno che sarà lui il padre di futuri re.
Re Duncan è riconoscente verso Macbeth. Gli concede un nuovo feudo, quello di Cawdor, già in possesso al traditore che si era unito agli invasori norvegesi, e gli promette una visita al suo castello. Invita poi tutti i nobili a corte dove nominerà suo figlio Malcolm futuro erede, contro le segrete speranze di Macbeth.
Macbeth scrive una lettera alla moglie per informarla degli ultimi avvenimenti e qui, all’inizio della quinta scena, la incontriamo che legge lo scritto del marito, per poi esplodere in una gioia irrefrenabile,

“Signore di Glamis, signore di Cawdor e diverrai anche
molto di più per quello che ti è stato promesso,
ma io temo la tua natura
troppo piena del latte dell’umana gentilezza
per prendere scorciatoie: Vorresti cose grandi;
non sei senza ambizione, ma ti manca la malizia
che deve accompagnarla.”

Il personaggio rivela immediatamente le sue caratteristiche, astuta, intelligente, spavalda, coraggiosa, innamorata del marito che conosce profondamente. Affascinante figura di futura regina. Quell’accenno al latte dell’umana gentilezza contrasta decisamente con il sangue della battaglia appena terminata e che abbiamo visto sul corpo del soldato che ne ha raccontato l’esito. Il linguaggio denso, veloce, essenziale, ne accentua la forte personalità.
Come promesso, re Duncan parte per far visita al castello di Glamis, feudo di Macbeth. Questi lo precede per i preparativi, e manda un messaggero per avvertire la moglie. All’arrivo del messaggero Lady Macbeth prorompe in un breve monologo che rivela tanto la sua prontezza di azione quanto la sua associazione con le tenebre, gli elementi del male, il sotterfugio. Lei sta già progettando la morte di Duncan, e lo spettatore attento prevede l’imminente tragedia.

“Anche il corvo è rauco,
che gracchia l’ingresso fatale di Duncan
tra le mie mura. Venite spiriti che
attendete a pensieri mortali, strappatemi il sesso
e riempitemi, dalla corona ai piedi,
di assoluta crudeltà! Addensate il mio sangue,
chiudete l’accesso e il passaggio al rimorso (…)
Venite al mio petto di donna
e rendete fiele il mio latte, voi ministri di morte (…)
Vieni notte fonda, ricopriti del più denso fumo dell’inferno,
che il mio coltello affilato non veda la ferita che fa
né il cielo sbirci tra la coperta del buio,
per gridare, “Fermati, fermati.”

All’arrivo di Macbeth,  gli si fa incontro, e tra i due scatta un breve, intenso dialogo.

Lady Macbeth: “Signore di Glamis,signore di Cawdor
                          molto di più per quello che verrà poi!
                          Le tue parole mi hanno portato
                          Al di là di questo ignorante presente, e ora sento
                          Il futuro nell’istante.”

Macbeth:          “Amore mio,
                          Duncan viene qui stasera”

Lady Macbeth:  “E quando se ne andrà?

Macbeth:           “Domani, pensa”

Lady Macbeth:  “Oh! Mai quel domani vedrà il sole”

Lady Macbeth, dominata dall’ambizione, vuole abbreviare l’attesa, e dirà al marito, “ lascia fare tutto a me”.  Macbeth , al contrario, sembra non volerne parlare, appare indeciso, incerto.
Quando finalmente il re arriva al castello, i due nobili lo accolgono con parole di miele, e durante la cena, tra canti  e balli, Macbeth uscirà dalla sala per stare con i suoi pensieri:

“Se tutto finisse con l’azione,
meglio sarebbe fare tutto in fretta, se l’omicidio
potesse intramagliare le conseguenza e cogliere
con l’atto il successo. (…) Ma in questi casi
lo sappiamo; diamo istruzioni mortali che, date,
tornano a impestare chi le ha impartite: questa Giustizia imparziale
porta alle stesse nostre labbra il calice avvelenato.”

Lo raggiunge la moglie, gli dice che lo vogliono in sala, hanno chiesto di lui, e qui abbiamo un saggio mirabile del linguaggio drammatico di Shakespeare, compatto, nervoso, contratto, tutto si decide nel giro di pochi versi.

Macbeth:  “non andremo avanti con il nostro progetto.
                 Mi ha coperto di onori. E tutti mi vestono di una stima
                 Che non voglio gettar via ora.”                 

Lady Macbeth: “Era ubriaca la speranza di cui ti eri rivestito?
                          E da allora dorme? Si sveglia ora pallida e verde
                          A guardare quello che aveva deciso liberamente?
                          Da oggi è così che considero il tuo amore. Hai paura
                          Di essere te stesso nell’atto e nel valore come lo sei nel desiderio?”

Un ricatto di fronte all’ambizione frustrata. Se Macbeth tentenna di fronte al progettato omicidio, come potrà lei essere sicura del suo amore? E’ la parola definitiva, la decisione è presa.
Quella stessa notte Lady Macbeth addormenta con un sonnifero le due guardie del re e Macbeth entrerà nella  camera per uccidere.
L’uccisione del re non viene mostrata sul palcoscenico, avviene dietro una quinta che cela la  camera. Forse era un atto improponibile sulle scene del tempo, forse l’autore vuole eccitare la curiosità dello spettatore. Quando Macbeth rientra in scena è un essere stravolto, coperto di sangue, ancora il sangue, e con i due pugnali in mano. E’ Lady Macbeth che si accorge dell’errore, i pugnali dovevano restare nella camera, o accanto alle guardie addormentate, ma Macbeth si rifiuta di rientrare e sarà lei a riporle accanto al cadavere. Ora anche lei ha le mani imbrattate di sangue, e insieme al marito le lava al pozzo del castello sul fare dell’alba. Questo gesto, di lavarsi insieme le mani imbrattate di sangue sarà l’ultimo che li vede insieme. Lui, da quel momento, procede verso un indurimento del carattere, che tra fantasmi e incubi lo condurrà al dubbio verso tutti, all’odio e alla solitudine. Lei scomparirà pian piano dalla storia incamminandosi verso una lenta pazzia di incubi e paure.
La notte del regicidio termina in un’alba brutta, paurosa, a sentire le parole di alcuni personaggi minori la notte è stata orribile, tempeste, terremoti, animali che si sono sbranati tra loro, un velo di tenebre, paura e oscura malvagità si stende sul castello di Glamis. Quel castello di cui, da lontano, re Duncan aveva lodato la posizione invidiabile e l’aria fresca, frizzante del posto. Perché il regicidio non è soltanto un delitto, ma una distruzione dell’ordine sociale e naturale. Qui Shakespeare torna alla concezione dell’epoca, il re è il vertice di una struttura umana e sociale, infranto il quale tutto crolla. Notevoli in questo senso i versi successivi alla scoperta della morte del re da parte del nobile Macduff. Questi, sconvolto, uscirà dalla stanza urlando,

 “Orrore, orrore, orrore”, (…)
la confusione ha prodotto il suo capolavoro!
Un sacrilego assassinio ha ribaltato il tempio santo del Signore
e tolto la vita all’edificio”.

Un grido quasi animalesco, dolente al suo massimo, e a chi,sopraggiunto,  gli chiede ragione del suo grido di dolore, domandandogli chi sia mancato, lui risponderà,  “tu, e non lo sai. La fonte, l’origine,  la sorgente del tuo sangue è arrestata.

Ma prima, qualcuno aveva  bussato con foga, ripetutamente, alle porte del castello e Macbeth con tragica ironia aveva accompagnato quei colpi, “vorrei che tu potessi svegliare Duncan con quei colpi”.

Siamo appena all’inizio del secondo atto e la tragedia ha già avuto luogo. Immaginiamo l’attesa dello spettatore che si attende una riparazione per altri tre atti.
Scoperta la morte del re, tutti si allontanano, chi per paura di esserne accusato, chi per paura di fare la stessa fine.
Il valoroso Macbeth diventa dunque re di Scozia, ma si rende dubito conto che il suo potere non è al sicuro. La meta agognata si rivela un terreno sdrucciolevole, e per tentare di rendere sicura la sua posizione Macbeth dovrà ancora uccidere e uccidere. Fino a restare solo anche fisicamente. Tutti lo abbandonano a poco a poco, soprattutto Lady Macbeth, che si allontana dalla storia, travolta dai rimorsi, timorosa del buio della notte, intenta a lavare dalle mani quelle macchie di sangue che lei solo vede, una lenta pazzia che la condurrà fino al suicidio. Alla notizia ci appare poi un Macbeth desolatamente amareggiato e deluso.

“Sarebbe comunque dovuta morire,
sarebbe venuto il tempo per questa parola
Domani, e domani e domani
Si avvicina strisciando a piccoli passi
Fino all’ultima sillaba del tempo dato.
E tutto il passato ha rischiarato agli sciocchi
La via verso la polvere della morte. Via candela breve,
La vita è solo un’ombra che cammina, un povero attore
che si muove e si agita sulla scena
e poi non lo si vede più”.

Ma non è ancora vinto. Era tornato a trovare le tre streghe, aveva ottenuto altre previsioni che lo avevano rassicurato (nessun nato da donna potrà uccidere Macbeth), ma che alla fine si dimostreranno incomplete, false perché non contengono la verità intera. Solo una parte, di comodo. Frasi che blandiscono l’umana ambizione per rivelarsi poi inconsistenti. Le ultime scene lo vedono abbandonato da tutti, solo nel castello, l’ultimo a lasciarlo sarà una strana figura di cortigiano, Seyton. Non resterà con lui fino all’atto finale, scomparirà poco prima, poco prima del duello finale con il nobile Mcduff, che gli darà la morte. Mcduff a cui Macbeth aveva sterminato la famiglia, Mcduff non nato da donna, che un medico aveva “strappato anzitempo dal grembo della madre”. Inattendibili profezie, incompleti messaggi, ambigui.

Identifico tre grandi protagonisti nella tragedia. Macbeth, Lady Macbeth e il male. Sì, anche il male è in qualche modo un personaggio, è presente in tutta la tragedia come feroce battaglia, tradimento, sangue, solitudine, ma verso la fine assume in qualche modo un volto più riconoscibile, che accompagnerà Macbeth quasi fino alla fine. Quasi. Ne è figura l’ambiguo cortigiano Seyton. Non dimentichiamo che questo personaggio porta un nome la cui pronuncia in inglese coincide con quella della parola Satan, il demonio. L’ultima invocazione di Macbeth sarà per chiamarlo,” Seyton I say”,  Seyton, ho detto.
Alla fine Malcolm, nuovo re, chiude, promettendo di regolare i conti con i seguaci, fuggiti, di “questo macellaio morto e della sua demoniaca regina”. Meste le ultime parole di Malcolm, che invita a rivolgersi ormai a lui. La vita  riparte, ma è un’altra storia. Ancora una volta ambizione, delitti, malvagità, sotterfugi sono allontanati. Ma fino a quando?


A cura di:

Marco Grampa

Laurea in Lingue e Letterature moderne presso IULM di Milano. Insegnante al Liceo Classico Crespi di Busto Arsizio per 20 anni, per otto anni presso il Liceo Scientifico Tirinnanzi di Legnano,

dove ha operato come senior manager per scambi culturali con istituti australiani, portoghesi e USA.

Traduttore di opere soprattutto di carattere letterario da paesi di lingua inglese, in particolare africani.

Autore di racconti e brevi saggi per riviste locali.

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