MATERIALI PER L'INSEGNAMENTO - LETTERATURA
TINTERN ABBEY, William Wordsworth
RITORNO A TINTERN ABBEY
Questa volta propongo di leggere una poesia.
Lines Composed a few Miles above Tintern Abbey, o più comunemente Tintern Abbey, è una poesia di William Wordsworth pubblicata nella raccolta Lyrical Ballads nel 1798. Secondo molti la poesia in questione segna l’inizio del romanticismo inglese, per i temi della natura, della memoria, del sentimento, dell’immaginazione, dell’identità tra autore e protagonista della poesia. Anche per il linguaggio, fresco, immediato, lontano dalla poetic diction dell’età precedente.
La poesia è facilmente reperibile nella rete, tanto in inglese quanto in italiano, con commenti spesso pregevoli, ma mi interessa qui sottolinearne alcuni elementi a volte poco considerati.
L’occasione è data da una camminata del poeta in una zona agreste del Galles, non lontana dai ruderi di una abbazia. L’autore ricorda di esservi già stato “cinque” anni prima, da ragazzo, ma quanta differenza tra la prima e la seconda visita. E’ l’inizio dell’estate, e colpisce la descrizione dell’imponenza della forza vitale della natura, che pare ricoprire tutto di un rigoglioso manto verdissimo, aggredendo quasi la porta delle poche case di campagna,
“these pastoral farms, green to the very door”.
(queste terre pastorali, verdi fino alle porte)
Lo stupore davanti alla bellezza della natura aveva già coinvolto il Wordsworth ragazzo, cito,
“ what I was when first
I came among these hills; when like a roe
I bounded o'er the mountains, by the sides
Of the deep rivers, and the lonely streams,
Wherever nature led.
(quello che ero la prima volta
che giunsi tra queste colline; quando come un capriolo
saltavo per questi monti, lungo le rive
di fiumi profondi e ruscelli solitari,
dovunque la natura mi conducesse).
Ora, durante la seconda visita, il fascino è lo stesso. E’ sempre uno stupore, una sorpresa, ma da una immedesimazione con la natura si passa poi a una riflessione, a considerare e riflettere su una “emozione riportata alla mente nella tranquillità”. Cito,
But oft, in lonely rooms, and 'mid the din
Of towns and cities, I have owed to them,
In hours of weariness, sensations sweet,
Felt in the blood, and felt along the heart;
And passing even into my purer mind
With tranquil restoration:-
(Ma spesso, in stanze solitarie, tra il frastuono
Di città e paesi, sono stato debitore a quelle (emozioni),
In momenti di stanchezza, di dolci sensazioni,
Sentite nel sangue e lungo il cuore;
Che giungevano perfino alla mia mente più pura
Per dare ristoro.)
E l’emozione e il fascino sentiti di fronte alla bellezza della natura gli forniscono qualcosa di più, cito,
.Nor less, I trust,
To them I may have owed another gift,
Of aspect more sublime; that blessed mood,
In which the burthen of the mystery,
In which the heavy and the weary weight
Of all this unintelligible world,
Is lightened:--that serene and blessed mood,
In which the affections gently lead us on,
…
While with an eye made quiet by the power
Of harmony, and the deep power of joy,
We see into the life of things.
(Non meno, ne sono certo,
a loro (emozioni) posso esser debitore di altro dono,
di aspetto più sublime; quella benedetta disposizione,
in cui il peso del mistero,
in cui il peso e la snervante fatica
di questo incomprensibile mondo,
viene alleggerito—quella disposizione serena e benedetta,
in cui gli affetti delicatamente ci guidano,
…..
Mentre con lo sguardo acquietato dalla forza
Dell’armonia, e dalla profondo forza della gioia,
possiamo vedere la vita delle cose.)
Questo è il primo punto che mi preme sottolineare: la memoria dell’emozione provata davanti alla bellezza della natura, alla sua armonia, questo fascino, diventa fattore di conoscenza. Non basta la sola ragione illuministica che caratterizza il suo secolo, il poeta rivendica alla sua sensibilità, all’emozione di fronte al bello, la capacità di cogliere, insieme alla ragione, “la vita delle cose”, il loro senso. Siamo molto lontani dalla famosa frase di s: Agostino, Nihil nisi per amicitiam cognoscitur?
Il secondo punto che mi preme sottolineare è che in questa sua avventura il poeta non è solo, la sorella Dorothy è con lui, e questo sembra confermare il poeta, cito,
“For thou art with me here upon the banks
Of this fair river; thou my dearest Friend,
My dear, dear Friend; and in thy voice I catch
The language of my former heart, and read
My former pleasures in the shooting lights
Of thy wild eyes. Oh! yet a little while
May I behold in thee what I was once,
My dear, dear Sister!“
(Perché tu sei qui con me sulle rive
Di questo bel fiume; tu mia cara Amica,
Mia cara, cara Amica; e nella tua voce sorprendo
Il linguaggio del mio cuore giovane, e leggo
I miei giovani piaceri nel brillio
Dei tuoi occhi selvaggi. Oh! Possa ancora un poco
Vedere in te quello che fui una volta,
Mia cara, cara Sorella!)
Che sorpresa vedere nell’altro lo stesso stupore e lo stesso desiderio!
Nella parte finale della poesia il linguaggio assume un tono di religiosità, da una estetica della natura a un desiderio di vita che sembra trovare risposta nella natura, “che non tradisce il cuore che la ama”, figura materna che guida, informa e imprime, una fede gioiosa, luogo di forme amate. Fino agli ultimi malinconici versi che esprimono un senso di caducità, di mortalità, desiderio di essere ricordato come un devoto della natura, che consegna la sua visione alla sorella, chiamata ora “Dear friend”, in un vincolo non solo più di famigliarità. Cito.
“For I have learned
To look on nature, not as in the hour
Of thoughtless youth; but hearing oftentimes
The still sad music of humanity,
Nor harsh nor grating, though of ample power
To chasten and subdue.--And I have felt
A presence that disturbs me with the joy
Of elevated thoughts; a sense sublime
Of something far more deeply interfused,
Whose dwelling is the light of setting suns
And the round ocean and the living air,
And the blue sky, and in the mind of man:
A motion and a spirit, that impels
All thinking things, all objects of all thought,
And rolls through all things.”
(Perché io ho appreso
A guardare alla natura non come al tempo
Della spensierata giovinezza; ma udendo spesso
L’ancora triste musica dell’umanità,
Non ruvida né irritante, seppur con ampio potere
Di frenare e sottomettere—E ho sentito
Una presenza che mi distrae con la gioia
Di pensieri elevati; un senso sublime
Di qualcosa più profondamente diffuso,
La cui dimora è la luce del sole al tramonto,
E l’oceano rotondo e l’aria viva,
E il cielo azzurro, e la mente umana:
Un movimento e una forza, che spinge
Tutte le cose pensanti, tutti gli oggetti di ogni pensiero,
E scorre in ogni cosa.)
Siamo alla fine della poesia e il poeta ci consegna le sue ultime riflessioni. Il cuore del poeta, provato a volte dalle durezze della vita, come quello di tutti, è alleviato dal ricordo di profonde emozioni sentite di fronte alla bellezza del mondo e riflette sullo “spirit”, spirito o forza che tutto pervade. C’è sicuramente una tinta di panteismo, ma questa parola, presence, presenza, e quel qualcosa diffuso nel il tramonto, negli oceani, nell’aria, non fanno pensare a qualcosa di più grande, che è nella natura ma non si confonde con essa? E quel “burthen of the mistery”, peso del mistero, di cui parlava nella prima parte della poesia mi fa pensare che il poeta non smette di cercare e porsi domande. E’ questo profondo senso di religiosità che in fondo ci colpisce nella poesia.
Allora torniamo al titolo, Tintern Abbey, Abbazia di Tintern, in rovina certo, ma pur sempre segno di qualcosa che è stato e che, perché no? può essere ancora.
A cura di:
Marco Grampa
Laurea in Lingue e Letterature moderne presso IULM di Milano. Insegnante al Liceo Classico Crespi di Busto Arsizio per 20 anni, per otto anni presso il Liceo Scientifico Tirinnanzi di Legnano,
dove ha operato come senior manager per scambi culturali con istituti australiani, portoghesi e USA.
Traduttore di opere soprattutto di carattere letterario da paesi di lingua inglese, in particolare africani.
Autore di racconti e brevi saggi per riviste locali.