MATERIALI PER L'INSEGNAMENTO - LETTERATURA
STALINGRADO, Vasilij Grossmann - a cura di G. Zanello
Vasilij Grossmann: STALINGRADO
Biblioteca Adelphi 2022, 884 pp, € 28,00
“Né mi tacer, perché secreto piangi,
quando il fato di Grecia, e d’Ilio ascolti.
Se venne dagli Dei strage cotanta,
lor piacque ancor, che degli eroi le morti
fossero il canto dell’età future (Odissea, VIII)
Forse fra ottocento anni, o magari fra milleottocento, quando quegli alberi non sarebbero più esistiti e non sarebbe esistita più neanche quella strada, quando la terra stessa avrebbe dormito il suo sonno eterno, ricoperta da nuova terra spessa e compatta, con forme di vita nuove che ora nemmeno ci è dato immaginare, senza più le città e i paesi in cui avevano vissuto generazioni e generazioni di nostri discendenti, un uomo canuto avrebbe attraversato a passo lento quei luoghi(…) si sarebbe fermato e avrebbe teso l’orecchio… Che succede? Un respiro, rumore di passi…Uomini in marcia… Ma non avrebbe capito il perché di quella stretta al cuore…”
Così il commissario politico Krymov, nelle ultime pagine, dà voce alle intenzioni dello scrittore, con parole che, a un orecchio italiano, e forse anche per opera del traduttore, non possono non richiamare la chiusa dei Sepolcri foscoliani. Intenzioni scopertamente epiche, come si vede. E Stalingrado rappresenta l’epica dell’Unione Sovietica, a partire da quella battaglia che fu combattuta all’unisono da tutti (dal ‘popolo immortale’) ma anche da ciascuno. E questo all’epica è necessario, che vi sia il terribile cimento collettivo, l’impresa di dimensioni cosmiche, l’evidenza della sorte comune e della comune causa, ma che di quella causa si facciano carico i singoli, gettando in essa la propria singolarità, svelata ed esaltata, magari plasmata, ma non soppressa.
A Stalingrado, com’è noto, i sovietici smisero di ritirarsi. La lunga marcia verso est, attraverso l’Ucraina e la regione tra il Don e il Volga, lì s’arrestò. Sappiamo dalla storia che s’arrestò per ordine preciso di Stalin, che dietro la decisione da cui di fatto partì la riscossa contro l’invasore ci fu la totale noncuranza del terribile autocrate per il prezzo in vite umane, la certezza, da lui comunicata e corroborata da infiniti esempi pregressi, che la ritirata avrebbe comportato ugualmente la morte. Grossman però non adotta questa linea interpretativa, non legge la resistenza di Stalingrado come frutto del terrore staliniano, bensì come risposta di ciascuno a un’evidenza che unisce tutti gli uomini: l’esigenza insopprimibile di vivere liberi sulla propria terra, di sperare in un futuro per i propri figli. Un’evidenza che non ha neppure bisogno di parole, una chiamata del destino per lo più non cercata (la folla di contadini e operai e infermiere che si muove nei capitoli del romanzo è fatta di gente che avrebbe di gran lunga preferito restare a casa propria, a svolgere il proprio lavoro, a curare la propria famiglia), davanti alla quale, tuttavia, ciascuno sa che bisogna dare la vita. In questa consapevolezza trasfigurante sta la radice dell’eroismo, la possibilità dell’epica.
La storia redazionale ed editoriale di Stalingrado è molto complicata. L’autore vi lavorò a partire dal 1943, sulla base dei fittissimi appunti presi durante i quattro anni in cui seguì l’esercito come corrispondente; la prima stesura fu conclusa sei anni dopo. Da lì partì una vicenda intricata e laboriosissima di revisioni dell’autore, censure, interventi redazionali: non diamo conto dei particolari, che si possono trovare nella nota redazionale all’edizione inglese in appendice a quella italiana di Adelphi, basti qui ricordare che in tutto le redazioni furono undici, con varianti profonde e un andirivieni di passi e personaggi tra Stalingrado e Vita e destino, concepiti fin dall’inizio come dilogia. In ogni caso, il libro non vide la luce fino al 1954, morto Stalin. Né fu l’unica opera di Grossmann ad avere vita difficile: Stalingrado era stato preceduto dal Libro nero, raccolta di testimonianze sulle stragi di ebrei perpetrate dai tedeschi durante l’occupazione, che avrebbe dovuto uscire nel ’46 ma non uscì mai. Quanto a Vita e destino, si ricorderà che esso fu pubblicato solo nel 1980, postumo, e in Svizzera, dopo che un’unica copia fortunosamente salvata era stata fatta arrivare a Losanna da Sacharov.
Ebreo ucraino, nato e cresciuto in una città in maggioranza ebraica, Grossmann è testimone diretto delle immani tragedie che colpiscono quella terra, dalla carestia degli anni ’30 alla guerra d’invasione di cui fu tanto a lungo teatro, alle stragi di ebrei, in cui trovò la morte anche la madre dello scrittore. Vide inoltre da vicino gli effetti delle purghe staliniane, che colpirono anche tanti scienziati di cui era stato allievo all’università, vide la corruzione, vide la brutalità nei confronti dei soldati. A tutti questi terribili mali ha dedicato pagine indimenticabili in Vita e destino e Tutto scorre: in queste opere ha ormai maturato il distacco definitivo dal comunismo, una consapevolezza profonda della sua intima connessione con essi.
Per il lettore che arrivi alle sue pagine dopo i due romanzi appena citati, Stalingrado risulta da questo punto di vista sorprendente, fin dalle prime battute, là dove si mette in scena l’incontro tra Hitler e Mussolini come precedente dell’invasione ma non si fa cenno al patto Molotov-Ribbentrop, ad esempio. O ancora quando il commissario politico Krymov, ospite presso una famiglia di contadini ucraini, commenta: “Kulaki eravate e kulaki restate”, preferendo poi passare la notte all’addiaccio piuttosto che con quella gentaglia, mentre non un cenno viene riservato alla carestia… In generale, la fede nella rivoluzione appare intatta, una ‘fede cristallina’ che viene accreditata anche a tante figure di popolani integri ed eroici. I mali ci sono, ci sono i corrotti, ci sono i fanatici pronti a denunciare chiunque, ma sono i mali umani, i difetti inevitabili all’interno di ogni umana opera; e sono mali di gioventù: la rivoluzione è ancora giovane, i giovani sono solo la prima generazione cresciuta nel socialismo. Tutta l’immensa impresa dello stato rivoluzionario è ancora un cantiere in costruzione, dove tanto lavoro resta da fare per estirpare la grettezza contadina, l’individualismo borghese. E questo senso straordinario di una speranza che si è storicamente concretizzata e che va crescendo, che già ha assorbito le energie di un numero immenso di uomini e che ha saputo trionfare di un rischio mortale, è forse la base profonda del respiro epico della narrazione, i cui due polmoni sono rappresentati dalle vicende di guerra, da un lato, e dal carattere prometeico ed eroico delle opere di pace, dall’altro. Carattere prometeico che è presente fin dall’inizio nell’esaltazione dello sviluppo industriale ed urbano: le possenti costruzioni di Stalingrado con le fabbriche enormi, descritte nei particolari e nel lavoro indefesso di operai, tecnici, ingegneri (ecco, questa è anche un’epica degli ingegneri); le miniere degli Urali; i trattori e l’organizzazione sostanzialmente industriale dell’agricoltura collettivizzata. Tutto è stato strappato all’arretratezza e all’approssimazione per essere guadagnato all’efficienza della tecnica moderna; e l’istruzione tecnica diffusa ha strappato la fatica manuale all’inerzia dei millenni, lanciandola nella corsa del progresso. Insomma, il grande balzo industriale dell’immenso paese sarebbe già epico di per sé, già sufficiente a produrre potenti figurazioni in cui si incontrano futurismo e realismo socialista, piene di energia, di velocità, di emozione per la complessa vastità dell’opera che la forza organizzata di milioni di uomini va realizzando. Ma l’acme di questo afflato epico è toccato quando le opere della pace si rivelano indispensabili per la guerra, a servizio della quale vengono poste, chiedendo agli uomini sacrifici non meno tremendi di quelli dei soldati. Guerra e pace si incontrano qui in un nodo più saldo e profondo di quello garantito dalla struttura, mutuata dal capolavoro di Tolstoj e basata sulle vicende dei membri di una famiglia nel loro intersecarsi con le vicende belliche. Né si può dimenticare l’afflato positivo con cui si sottolinea ad ogni occasione la mescolanza di tanti popoli diversi, una mescolanza in cui le differenze appaiono superate nella collaborazione all’impresa comune, nell’alveo di convinzioni condivise, mentre a ciascuno si apre tutto intero il vastissimo orizzonte delle Repubbliche.
Certo, si tratta di una prima impressione che va corretta: come si diceva, le difficoltà opposte dalla censura furono innumerevoli, e sempre qualche nuovo errore ideologico veniva imputato all’autore, il quale incessantemente cambiò e tagliò, in qualche caso nascose con ingegnosi espedienti ciò che non poteva dire esplicitamente; resta il fatto che Grossmann non giunse mai al punto di rifiutare questa sua creatura, che continuò a sentirla come propria, come espressione del proprio sentire. Dobbiamo pertanto accoglierla come un momento autentico, nonostante i limiti di cui si è detto, come l’espressione sincera di una grande speranza e dell’ammirazione per la straordinaria impresa in cui tanta gente ordinaria cooperò alla vittoria del bene.
Ma è giunto il momento di parlare delle crepe che in questa speranza si sono tuttavia insinuate, che porteranno a scardinarla e a cercarne nuove basi nei libri successivi. E la prima crepa è rappresentata dalla questione delle stragi di ebrei. Si è detto che ne rimase vittima anche la madre dello scrittore, il quale vide sparire dalla sua città natale l’impronta ebraica che l’aveva caratterizzata. Che cosa poteva essere più naturale, più consono allo spirito della grande guerra patriottica che aveva sconfitto il nazismo, che aveva portato l’Armata Rossa a liberare Auschwitz, della denuncia degli spaventosi crimini perpetrati dagli occupanti tedeschi contro gli ebrei sovietici? E invece, Stalin proibì di aprire quel capitolo, preferendo, dicono gli storici, tenersi buono l’antisemitismo interno per sfruttarlo all’occasione. E così il Libro nero approntato da Grossmann non fu pubblicato; e così non poté parlare di quell’orrore, di quella ferita indicibile, neppure in Stalingrado, dove è presente però una straordinaria invenzione letteraria che ritorna anche in Vita e destino: il professor Strum riceve una lettera della madre, giuntagli alfine dopo mille peripezie, nella quale la donna, prigioniera in un ghetto, poco prima di morire racconta al figlio ciò che sta accadendo. Strum la legge e la rilegge, non se ne separa mai; la tiene con sé come sempre ha in sé la ferita sanguinante del suo contenuto, ma non rivela questo contenuto al lettore. Un silenzio, dunque, un potente silenzio pieno di pianto si apre nella narrazione come un abisso. E’ un silenzio più potente di tante parole, nel quale l’abominio subito dalle vittime si raddoppia nel divieto di parlarne.
Allo stesso modo, nel libro non ci sono riferimenti diretti alle purghe staliniane, ma Grossmann, attraverso un sottile gioco di echi e di rimandi nei nomi dei personaggi trova il modo di ricordare eminenti figure di scienziati e politici ingiustamente caduti sotto la mannaia della dittatura: di questo raffinato gioco il lettore trova una precisa ricostruzione nella postfazione di Robert Chandler.
Ci fermiamo a questi esempi, sufficienti a spiegare come il secondo volume della dilogia, il celeberrimo Vita e destino, non possa che presentare un altro paesaggio, dove il fondamento della speranza deve essere posto in qualcosa di diverso dall’esaltante convinzione di combattere dalla parte giusta, in una storia che galoppa verso il bene.
Un’ultima notazione. Tra le pagine più dolorose e straordinarie del romanzo vi sono quelle dedicate al bombardamento di Stalingrado: settimane di fuoco e boati in cui periscono l’uomo e le sue opere e sono sconvolti la terra, l’acqua del fiume, gli animali. Nulla, nulla può giustificare una perversione che lascia vuoto il cuore umano e sbigottito e distrutto il cosmo. Al tempo della grande guerra patriottica i Russi lessero come mai prima Guerra e pace. Ci si augura che oggi in molti leggano Stalingrado.
A cura di:
Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net