James Joyce:

Dubliners

a cura di Mariella Stagi Scarpa

ed SEI

 

       Intorno a  Dublino

   Gente di Dublino, Dubliners in inglese, è una raccolta di racconti che James Joyce scrive all’inizio del secolo scorso, tra il 1904 e il 1907.  Alcuni vengono pubblicati separatamente poi finalmente raccolti in un unico volume. Protagonisti dei racconti sono vari personaggi, ma non sarebbe sbagliato considerare che il grande, muto protagonista è la città di Dublino, la cui forza, quasi un incantesimo, trattiene e determina la vita dei suoi abitanti.
   Si tratta di quindici racconti, che possono essere divisi in quattro sezioni, infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica.
   Lo stile della narrazione è certamente realistico, la descrizione dei personaggi e degli ambienti è accurata, minuziosa, ma l’abbondanza di dettagli ha certamente una profonda funzione simbolica. Infatti nelle case spesso gli oggetti sono coperti di polvere: le tende della stanza di Eveline, il paralume nella casa delle zie Morkan nel racconto I Morti. Tra i protagonisti ci sono spesso anziani o vecchi, come lo sono le loro case. Dimore vecchie e brutte in vicoli bui dove giocano i ragazzi. Nelle stanze buie pochi, essenziali mobili, vecchi quadri o fotografie giallastre appese alle pareti, di gente lontana di cui si perde la memoria.
   E poi la città, quasi sempre rappresentata al buio, scura, di sera o di notte, con le decrepite case a schiera di mattoni brunastri e anneriti.
   Il linguaggio è efficacissimo, coinvolgente, quasi avvolgente, in un abbraccio che accompagna il lettore verso nuove scoperte e pieghe della vita. Esaltante esperienza di lettura.

   Quello che accomuna i vari personaggi dei racconti mi pare essere un grande desiderio di vita, ahimè frustrato impietosamente.

   Il protagonista di Arabia, un ragazzino che vuol fare un dono alla ragazzina a cui vuol bene, rimane frustrato nel suo desiderio. Troppo tardi riesce a raccogliere i soldi necessari e ottenere il permesso per uscire, e quando arriva alla fiera per acquistare qualcosa, le bancarelle e gli stand stanno già chiudendo. Il suo sogno, il suo desiderio, suggerito anche dal nome del bazaar, della fiera, Arabia, con il richiamo a luoghi lontani e fascinosi, si infrange.

   Mirabile e tragico il susseguirsi degli eventi nel racconto Eveline, spesso presente nelle antologie di letteratura inglese in quanto breve ma estremamente significativo. Eveline è una giovane sostanzialmente triste, depressa, già schiacciata dalla vita, dalle responsabilità. “Tieni unita la famiglia”, questo il mandato lasciatole dalla madre in punto di morte. La famiglia è un padre violento e ubriacone, un fratellino, mentre i due fratelli maggiori se ne sono già andati di casa. Lavora come commessa in un negozio, “sù un po’ allegra”, la rimprovera spesso la direttrice. La sua è una esistenza dura e solitaria, una vita guardata da dietro le brune tende polverose della finestra di casa. Il suo desiderio di vita viene come allo scoperto quando conosce Frank, un marinaio che le vuol bene e la vuol portare con sé lontano, a Buenos Aires. Una nuova vita, finalmente. Frank la porta a teatro, ai concerti, le fa assaporare il gusto di una esistenza diversa. Eveline appare decisa, seguirà Frank, si lascerà tutto alle spalle, ma al momento dell’imbarco la ritroviamo come un animale inerme, senza volontà, le mani che non si staccano dal corrimano della passerella, e la nave parte senza di lei, che resta lì paralizzata, non può muoversi.

   E’Dublino che la blocca, la città della paralisi, della non-speranza. Città della non-vita.

   Paralisi è la parola che l’autore usa per descrivere quello che sembra essere il peccato fondamentale contro la vita degli abitanti di Dublino: sentono che per vivere pienamente dovrebbero lasciare il luogo della paralisi, della non-vita, ma non sono abbastanza decisi per farlo, abbracciando una muta rassegnazione. Esilio o rassegnazione. “Se volevi il successo dovevi andartene”, pensa Little Chandler, nel racconto Una piccola Nuvola.

   Nell’ultimo, lungo racconto, I Morti, quasi un romanzo breve che si svolge in gran parte in occasione di una festa sotto Natale, il protagonista è Gabriel, un borghese, soddisfatto di sé, apprezzato dalla famiglia e dai conoscenti. E’un momento di festa e di allegria che le zie di Gabriel, le signorine Morkan, organizzano ogni anno. Per una volta diventa un momento di conoscenza, o di non-conoscenza, di sé. Perché Gabriel, che scrive brevi commenti letterari su un giornale politicamente filo-britannico, viene attaccato da una giovane e accusato di non essere un vero irlandese, ma un britannico. E basta questo a guastargli la serata. E come se non bastasse, al ritorno in albergo con la moglie, la scopre piangere: un canto della serata le aveva ricordato un triste episodio della sua giovinezza, la morte di Michael Furey, forse il suo primo innamorato. Gabriel scopre così di non conoscere nemmeno sua moglie, quasi per la prima volta gli si rivela il mistero della vita degli altri. Richiamato dalla neve gelata che picchietta sul vetro della finestra, guarda fuori, la neve che scende e ricopre tutto come un manto bianco, immacolato, come una coperta che copre e seppellisce la città.

   Due sono le caratteristiche che fanno della città un luogo che paralizza la vita e le impedisce di fiorire. Da una parte la dipendenza dalla Gran Bretagna. Sono questi gli anni di una ripresa del sentimento nazionale in Irlanda, del desiderio di affrancarsi dallo scomodo vicino, dalla voglia di troncare quel legame asfissiante che faceva dell’Irlanda la prima colonia della Gran Bretagna. Un episodio quasi umoristico ce lo suggerisce ancora il racconto I Morti. Qui il tema della paralisi ci viene dalla storia di Johnny, cavallo irlandese. Abituato a girare in tondo legato a una macina da mulino, una volta che il padrone, Patrick Morkan, lo attacca alla carrozza per un viaggio in città, il cavallo si mette a girare intorno alla statua di Re William, simboleggiando così la paralisi della vita degli abitanti di Dublino che girano intorno ai loro governanti inglesi.

  

   Dall’altra parte, l’accusa alla chiesa di essersi ridotta a un insignificante clericalismo. Spia di questo il primo racconto, Le sorelle, dove troviamo un vecchio prete infermo, vicino alla morte, che sa solo dare risposte formali a un ragazzino curioso, attratto dalla vicenda di questo vecchio prete a cui si è spezzato un calice durante una funzione e che da quel momento è precipitato in una crisi di follia, fino a quando lo ritroveranno a ridere in un confessionale. Il fatto che alla sua morte venga deposto nella bara con un calice sul petto segnala chiaramente la fine dell’esperienza di cattolicesimo per l’autore. Un cattolicesimo, dicevo, ridotto a clericalismo, senza più ragioni. Come ritroviamo anche in un breve dialogo, nel racconto I Morti, tra una delle sorelle Morkan e un invitato alla festa, Mr. Browne, un protestante:

   Lui, (Mr: Browne) era sorpreso di sentire che i monaci non parlavano mai, si alzavano alle due di notte e dormivano nelle loro bare. E chiese perché lo facessero.

-- E’ la regola dell’ordine, disse zia Kate in tono deciso.

-- Sì, ma perché? chiese Mr. Browne.

   La zia Kate ripetè che era la regola dell’ordine, e questo era tutto.

    La soluzione che Joyce sembra proporre è la fuga, l’esilio. Nulla di buono può essere realizzato a Dublino. Tuttavia, anche chi è riuscito a lasciare la città e magari vi ritorna occasionalmente, pensiamo a Mr. Gallaher del racconto Una Piccola Nuvola, non sembra essere migliore o più felice. Solo un po’ più sicuro di sé, merito anche del whisky, vestito meglio, con una parlata senza accenti provinciali.

   Posso supporre, alla fine della lettura, che anche Dublino sia un grande simbolo, e cioè della impossibilità dell’uomo di trovare da solo la risposta al proprio desiderio di felicità. Per accontentarsi di una vita scialba, come il protagonista del racconto Un Caso Doloroso, che si ritrae di fronte al consolidarsi di una sincera amicizia, di un amore, forse. E sembra scegliere di restare solo, in una casa disadorna, in una vita routinaria.

   Ma l’uomo è più grande delle sue piccolezze e pusillanimità. Il lettore trova in ogni racconto un momento di intensa rivelazione per ciascun protagonista, un attimo, un gesto, una parola in cui uno spiraglio di luce sembra illuminare il senso della propria vita. Epifania, la chiama l’autore. Non pare però che a questo segua un impeto di decisione. Tutto si perde ancora troppo facilmente  in un grande magma oscuro rappresentato dalla città.

   Quel bagliore che coglie Gabriel di fronte al pianto della moglie, che ricorda un primo affetto della sua giovinezza, risveglia in lui un attimo di conoscenza:

“guardava sonnolento i fiocchi di neve argentati e scuri, che cadevano storti contro la luce della lampada. Era arrivato per lui il tempo di partire verso l’ovest”.

 

   L’ovest è il luogo del tramonto, della fine del giorno, ma anche di quella parte dell’Irlanda più lontana dalla Gran Bretagna. Anche, oltre l’Atlantico, il luogo di un Nuovo Mondo. Il racconto continua:

   “Sì, i giornali avevano ragione: la neve ricopriva l’Irlanda. Cadeva su ogni parte dello scuro altopiano centrale, sulle colline senza alberi, cadeva dolcemente sul Bog di Allen e, ancora più a ovest, cadeva sulle scure, ribelli onde dello Shannon. Cadeva anche su ogni angolo del piccolo cimitero sulla collina dove Michael Furey era sepolto…La sua anima perse lentamente conoscenza mentre sentiva la neve cadere delicata per l’universo e delicatamente cadere, come la discesa verso la loro ultima fine, sopra tutti i vivi e i morti.

Così finisce il racconto I Morti. Gabriel per tutta la serata aveva intravisto l’ombra del suo fallimento, come borghese appagato, a seguito dell’accusa di una giovane, “West Briton!”. La commozione della moglie lo riporta a una più dolorosa ma meno superficiale considerazione della sua vita. Quello che farà al suo risveglio è lasciato all’immaginazione del lettore.

 


A cura di:

Marco Grampa

Laurea in Lingue e Letterature moderne presso IULM di Milano. Insegnante al Liceo Classico Crespi di Busto Arsizio per 20 anni, per otto anni presso il Liceo Scientifico Tirinnanzi di Legnano, dove ha operato come senior manager per scambi culturali con istituti australiani, portoghesi e USA.
Traduttore di opere soprattutto di carattere letterario da paesi di lingua inglese, in particolare africani.
Autore di racconti e brevi saggi per riviste locali.

 

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