MATERIALI PER L'INSEGNAMENTO - LETTERATURA
Kafka: LETTERA AL PADRE, a cura di G. Zanello
LETTERA AL PADRE
Autore: Franz Kafka
Ed. Feltrinelli 2013, p.95, 6,18 €
Nel 1919 Franz Kafka ha trentasei anni e pochi gliene restano da vivere – la tisi si è già annunciata; ha già scritto Il processo, pur senza pubblicarlo, e pubblicato La metamorfosi. Pubblica poco ma scrive molto e i riscontri ricevuti sono ormai sufficienti a convincerlo del carattere non velleitario della sua vocazione di scrittore. Ebbene, quest’uomo di trentasei anni nel 1919 pone mano alle sessanta pagine della Lettera al padre, introdotte dal seguente incipit:
Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te.
Questo testo non è propriamente letteratura, se nel termine facciamo rientrare d’obbligo anche un tratto relativo a una ideale destinazione pubblica, in quanto l’autore non lo pensa per la pubblicazione ma, al contrario, come missiva privatissima destinata al proprio padre. Anche come lettera, però, è abnorme, nelle sessanta pagine che violano indubbiamente le convenzioni del genere epistolare; ma soprattutto è fallita nello scopo, perché al padre non verrà mai data.
Eppure già quella prima riga ci mette a contatto con la grandezza della scrittura di Kafka. Intanto per la sincerità inaudita con cui chi scrive ‘sostiene’ (e non bisogna trascurare il carattere perentorio di questo termine, che propone una constatazione di fatto) non di avere avuto in passato, da bambino, da adolescente, ma di avere ancora nel presente, da uomo fatto, paura del padre. Poi per quelle due parole, ‘carissimo’ e ‘paura’, che pongono lo scritto così inaugurato sotto l’insegna di un paradossale ossimoro. Il lettore ignaro potrebbe non cogliere subito questa valenza e interpretare il superlativo iniziale come semplice formula convenzionale. Sarà quanto segue, però, a contraddire questa impressione, costringendo ad abbandonare la disposizione mentale rilassata con cui ci si è passati sopra di primo acchito e a riconoscere che anche qui, come ovunque in Kafka, nessun termine è frutto di inerzia.
La lettera si presenta dunque come risposta a una domanda, una domanda però in cui si avverte l’accusa, il risentimento di chi constata nel figlio l’esistenza di un sentimento che non ci dovrebbe essere, di un sentimento colpevole; accusa da cui questi si difende, a sua volta, con una terribile, circostanziata requisitoria, in cui le parti di accusato e accusatore sono capovolte. Nella Lettera, insomma, Kafka, dopo quello letterario, mette in scena il processo che ha per oggetto la sua vita reale, dove si fronteggiano drammaticamente un figlio e un padre. Il quale ha a sua volta diritto alla difesa: e infatti così si conclude la Lettera, con due pagine finali in cui il figlio immagina l’autodifesa del padre.
E diciamo subito che non ci sono colpevoli: del padre il figlio riconosce l’onestà, la dedizione al lavoro e alla famiglia; a se stesso accredita l’assenza di comportamenti oggettivamente riprensibili e, nonostante tutto, il legame filiale. Se non che proprio l’innocenza, lungi dal togliere il dramma, ci abbandona impotenti nella palude di dinamiche perverse.
Fin dalle prime pagine si fronteggiano un padre volitivo, sicuro di sé e dei suoi giudizi, un padre che può vantare una vita di successi conseguiti con le sue sole forze, e un figlio timido e ritroso, che davanti a lui balbetta e diviene incapace di volontà. Al fisico possente del padre si contrappone la magrezza gracile del figlio, rappresentazione plastica di una inferiorità, anzi di una indegnità di quest’ultimo che lo colma di vergogna. Questo è infatti il primo nodo fondamentale: la possanza fisica e la sicurezza psicologica del padre incutono nel figlio, insieme, ammirazione, timore e vergogna per la propria inadeguatezza. Prestanza fisica, grande capacità di lavoro, prontezza e sicurezza di giudizio fanno del padre l’essere superiore del cui diritto non si può dubitare. Ed è un diritto- il punto ricorre nell’opera di Kafka- che non trova il suo fondamento nel rispetto di una legge, bensì nella mera grandezza della persona, la quale, pertanto, non viene indebolita o delegittimata dalla propria incoerenza: al contrario, proprio le incoerenze – e nella lettera tante ne vengono indicate- certificano in modo inoppugnabile che il padre non è soggetto ad alcuna legge, anzi, delle leggi è la fonte. Ora, se chi impone agli altri una legge la viola sistematicamente, ciò può significare una cosa sola: che la legge medesima non ha alcuna necessità intrinseca, alcuna motivazione di cui si possa ravvisare una logica utile a comprendere il mondo. Ne risulta che l’unico scopo della legge è l’umiliazione di coloro cui viene imposta, con la conseguente vergogna derivante, insieme, dal semplice trovarsi tra coloro che stanno sotto e dall’incapacità di osservarla compiutamente, e quindi da una irrimediabile condizione di colpevolezza.
(…) eravamo così diversi e, in questa diversità, così pericolosi l’uno per l’altro che (…) che si sarebbe potuto supporre che tu mi avresti semplicemente calpestato, senza che di me rimanesse niente.
Segue a questo punto il celebre episodio del bambino che di notte piagnucola insistentemente per un’inezia e per punizione viene portato dal padre sul ballatoio e lì lasciato per qualche tempo:
(…) non riuscii mai a stabilire il giusto nesso tra l’elemento per me ovvio del mio insensato chiedere l’acqua e quello eccezionalmente spaventoso dell’essere portato fuori. Per molti anni ancora patii pene strazianti all’idea che quel gigante, mio padre, l’istanza ultima, poteva venire quasi senza motivo e, di notte, portarmi dal letto sul ballatoio, e che quindi io ero per lui una tale nullità.
E questo è il cuore della questione, su cui occorrerà ritornare. Intanto diciamo che nelle pagine successive si dispiega una ricca fenomenologia del potere arbitrario: il tono di voce sempre sprezzante, la critica feroce contro tutti, contro ogni cosa e il suo contrario, il disprezzo che colpisce indistintamente gli occasionali amici del figlio, il sarcasmo sistematico; poi il colmo della contraddittorietà dispotica, l’imperativo ‘Fa’ quello che vuoi’ espresso con voce arrochita dall’ira. E nella rassegna passano le figure degli altri componenti della famiglia e tanti particolari delle loro biografie e della vita quotidiana, così che Italo Alighiero Chiusano ha potuto osservare che la Lettera al padre, che pure non è tecnicamente un romanzo, è però ricchissima di narrativa con la n maiuscola. Esemplare in questo senso è l’affresco dedicato al negozio dal padre fondato e fatto prosperare, su cui poggiava il benessere della famiglia; quel negozio cui Franz si rifiutò di dedicarsi, aprendo nel cuore del padre un’insanabile ferita. Ebbene, il bambino inizialmente affascinato dalle merci, dal via via di clienti, dalla stessa abilità commerciale paterna, è ben presto sgomentato e respinto dalla prepotenza arbitraria cui il padre si abbandona nei rapporti con i dipendenti, improntati a tirannia gratuita, imprecazioni e insulti:
(…) l’espressione che adoperavi costantemente a proposito di un commesso tubercolotico: “Deve crepare, quel cane ammalato”.
(Notiamo di passata che a morire ‘come un cane’ è il protagonista del Processo).
Là ricevetti il grande insegnamento che tu potevi anche essere ingiusto (…) Perciò io stavo necessariamente dalla parte del personale.
Emerge qui un tratto peculiare della narrativa kafkiana, ovvero la disposizione dell’autore ad essere sempre l’infimo tra i suoi personaggi. Come ha efficacemente notato Elias Canetti, Kafka non ‘rappresenta’ l’insetto, ‘è’ l’insetto, come è il condannato, l’inetto, il disprezzato.
Anche attraverso la lunga sequenza dedicata ai rapporti con le sorelle, Kafka tratteggia gli esiti progressivi del metodo educativo paterno. Lo spavento, la vergogna, il perenne senso di colpa plasmano una personalità non solo timida e insicura ma anche umiliata e vile. Spregevole ai propri occhi e disposta, dunque, a dare ragione a chi formula contro di essa un’accusa, per quanto vaga e incomprensibile.
Una personalità perennemente intenta a scrutare le ragioni del dispotismo e dell’umiliazione, a sceverare torti e ragioni, che non conosce mai, quindi, un momento di libertà dall’oppressione.
Anche l’ebraismo, la scuola, la professione ruotano intorno a questo ingorgo malefico, ne vengono falsati senza rimedio o appannati fino all’irrilevanza.
Tutta la vita appare bloccata e divorata dalla terribile scoperta della natura ambigua dell’istanza ultima, o, in altre parole, della legge del mondo come potere, di fronte al quale si è prima grumo di materia spregevole e poi nulla.
In questo senso, appare convincente la lettura che di Kafka dà Elias Canetti, che sottolinea appunto la sistematica denuncia, da parte dello scrittore, di qualunque forma di potere e la sua rinuncia ad averne una parte anche piccolissima. Ugualmente pertinenti appaiono altre letture di carattere politico, che sottolineano la denuncia dell’alienazione della società borghese e della famiglia che ne ripete e ne rinforza le dinamiche. Né si può dimenticare la coeva elaborazione che del groviglio potenzialmente patologico dei rapporti familiari ha dato Freud. Tutti questi aspetti sono importanti, nelle grandi opere di invenzione come in questo libriccino ad uso privato, più immediato perché spoglio di travestimenti letterari. E non si può certo negare la valenza attuale e universale dell’analisi degli effetti del potere nei gangli del vivere sociale. Tuttavia non può non imporsi al lettore la presenza in filigrana del Dio della Genesi e di una sorta di peccato originale. Perché ‘l’istanza ultima’ è inevitabile e necessaria e non può essere che amore o potere, mentre la colpa originaria, secondo la definizione che lo stesso Kafka ne ha dato, l’antico torto commesso dall’uomo consiste nel rimprovero che egli fa, e da cui non desiste, che gli è stato fatto un torto, che la colpa originaria è stata commessa contro di lui. “Ma chi, commenta Walter Benjamin in Angelus novus, viene accusato di questa colpa originaria- la colpa di avere fatto un erede- se non il padre del figlio? Così il colpevole sarebbe il figlio.”
E infatti, nella grande scena della Genesi, è il figlio a mutuare la logica del potere, a muovere al padre l’implicita accusa di dispotismo che apre la strada alla disobbedienza. Ma come stanno le cose quando il padre è solo un padre umano? Torniamo alla lettera. L’autore rievoca i suoi dialoghi con le sorelle:
Tu sei certamente uno degli argomenti principali della nostra conversazione, da sempre, ma non è perché vogliamo escogitare qualcosa contro di te che stiamo assieme, bensì per analizzare assieme con ogni sforzo (…) questo terribile processo che aleggia tra noi e te, in tutti i suoi particolari (…); questo processo in cui tu hai sempre affermato di essere giudice mentre, almeno in massima parte, (…) sei solo una delle parti, debole e abbagliato come noi.
Insomma, il padre che per il bambino è l’istanza ultima non lo è davvero, non è Dio, è il volto di Dio sfigurato dall’accusa del figlio tanto quanto dalla propria pretesa di farsi giudice. La spietata requisitoria che sembra non lasciare scampo, tra reciproche accuse e insuperabili blocchi psicologici, apre dunque uno spiraglio di pietà (debole e abbagliato come noi) e lascia aperta la strada anche per la ricerca della liberazione, del vero volto di Dio.
Oggi che è in via di sparizione, sappiamo che i conflitti familiari non sono appannaggio della rigida famiglia borghese del passato e che il dramma dell’essere figli va in scena anche su palcoscenici molto diversi da quelli tradizionali, con i suoi strascichi di risentimento, disagio, follia omicida, anche. E dunque, se dobbiamo credere alla forza pedagogica della grande letteratura, recentemente ribadita anche da Papa Francesco, vale forse la pena di rischiare con gli studenti più grandi, nel triennio superiore, una lettura anche dolorosa e spiazzante come quella proposta. Una lettura in classe, guidata e condivisa, in cui magari imparare a dare un nome a propri tormenti, scoprire che non sono solo propri, trovare la forza di guardarli, attraverso la mediazione dell’opera, e scoprire la possibilità della pietà che libera.
A cura di:
Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net