Ogni storia è una storia d’amore

AUTORE: Alessandro D'Avenia

EDIZIONI: Mondadori, 2017

TARGET: dai 16 anni

‘Lo stesso vostro canto, così sdegnoso pur nella passione, così alto e puro e casto non è che il grido del vostro pudore convulso, contratto sotto la sferza dell’istinto, dell’istinto che provvede all’eternità della specie…’: sono parole di Guido Gozzano ad Amalia Guglielminetti, che Alessandro D’Avenia cita nel capitolo a lei dedicato di Ogni storia è una storia d’amore. Parole dettate da una sensibilità elitaria allora, comune, e quindi anche banalizzata, oggi. Non c’è nulla che non si spieghi in termini di cause efficienti, materiali, anche brutali. Il resto è falsa coscienza, vestito decoroso che chi vuole mette addosso alle cose e a se stesso per non vedere la faccia ripugnante, disperante, di un reale che non va da nessuna parte ma semplicemente rotola per la sua china insensata.

L’amore salva? Con questa domanda l’autore apre il suo libro – non un romanzo, non propriamente un saggio, un’inchiesta, forse- ed è evidente il sapore di sfida.

L’amore infatti si può spiegare nei termini adombrati dalla citazione di Gozzano, ma allora non salva, anzi da esso bisogna salvarsi, riconducendolo nel perimetro biologico che gli spetta, senza travestimenti, spezzando i legami che alacremente crea, disinnescandolo a furia di ragionamenti – fino a raggiungere il gelo di un dandy gozzaniano – o riducendolo a bene primario, privo di implicazioni morali, da soddisfare in modo libero, anche capriccioso, purché socialmente indolore.

Però le cose non stanno così, e non solo perché il depotenziamento culturale dell’amore è tanto antropologicamente fallace da provocare perfino l’impasse biologica ( leggi ‘calo del desiderio’), ma anche perché il declassamento del contenuto sentimentale e valoriale a falsa coscienza non porta con sé la liberazione ma il vuoto, la relazione puramente strumentale, la violenza.

E’ quindi giusta la scelta di D’Avenia di partire da ‘la sola cosa che c’è’ (per citare un’altra delle donne del suo libro, Zelda Fitzgerald), di non discutere l’imponenza esistenziale dell’amore ma di scavarla proprio in quanto imponenza, così forte da poter essere legittimamente intesa come la chiave per leggere l’essere umano, cosa che del resto la letteratura occidentale ha fatto dalle sue origini.

L’amore salva? ‘L’amore è il nostro futuro anteriore. Origine e destinazione’, si legge nell’epilogo. Destinazione, quindi viaggio, senso. Moto. ‘Masso che dal vertice di lunga erta montana, abbandonato all’impeto di rumorosa frana, per lo scheggiato calle precipitando a valle, batte sul fondo e sta’: questo, nel Natale manzoniano, è l’uomo prima della salvezza, ma la descrizione ben si adatta anche al gelo contemporaneo, all’uomo che si autorappresenta come frutto di cause efficienti, a sua volta causa efficiente di altro secondo una legge che non ha parentele con il suo cuore e quindi, alla fine, lo cancella. Basterebbe questo, l’aver corso il rischio di tornare a porre l’amore - una causa finale, per così dire- al centro della vita, invece delle cause efficienti, a rendere degno di encomio il lavoro di D’Avenia.

Trentasei storie di donne, mogli o amanti di artisti, soprattutto poeti, distribuite in terne intervallate da soste nelle quali si dipana il racconto ovidiano del mito di Orfeo, che l’autore ha scelto come filo conduttore, come metaracconto , con la funzione di tenere insieme il vasto ventaglio fenomenologico degli amori di cui narra e al contempo di fare da sfondo alle sue riflessioni, alla sua ‘filosofia dell’amore’.

‘Guerra e viaggio, sono questi i due movimenti della letteratura di tutti i tempi. Eppure a suscitare entrambi sono nomi di donne: Elena e Penelope…La donna è il viaggio e la meta. ‘

E il libro chiede alle donne di rendere testimonianza all’amore, come a quelle che veramente lo conoscono, anzi, che conoscono quello vero.

Così, ci troviamo davanti a una sorta di incrocio tra due opere ovidiane, le Metamorfosi (per via del mito di Orfeo e della continuità multiforme e avvolgente della struttura) e le Heroides, per via della focalizzazione sulle donne. Anche se poi non sono le donne a parlare, come nell’opera di Ovidio. La loro vita emerge da una voce terza, in genere diversa sia da quella della donna, sia da quella dell’amante. E’ di volta in volta   qualcuno che con la storia narrata è collegato, ma in realtà questi terzi hanno tutti la stessa voce, quella dell’autore, la quale si espande con entusiastico rigoglio stilistico e si diffonde in considerazioni non sempre indispensabili, mentre la vicenda biografica e psicologica delle protagoniste è contratta in una stilizzazione che a volte sfiora il cliché.

E’ questo un limite evidente del libro, non a caso ben colto nella recensione, comunque elogiativa, che gli ha dedicato su Repubblica Giuseppe Conte, il quale parla di ‘libro ambiziosissimo’ e di qualche tratto adolescenziale.

Le donne delle Heroides sono diciotto, forse D’Avenia ha esagerato raddoppiando il numero. Forse una selezione più severa e un maggiore approfondimento gli avrebbero consentito di meglio differenziarle, di farle vivere di vita propria, strappandole al cliché di musa o stampella dell’uomo di genio in cui spesso paiono confinate. Anche perché, se è vero che l’autore sta dalla loro parte nell’assunto generale dell’opera (e anche in qualche intervista, specie se sollecitato da intervistatrici), nella carne e nel sangue delle pagine la voce narrante appare sbilanciata sul maschio di turno, sui suoi problemi con la Musa che la donna di volta in volta rappresenta o ostacola.

Le vere esperte dell’amore, le prime interlocutrici di un discorso sull’amore sono le donne, lo sappiamo bene, da Donne ch’avete intelletto d’amore e dal proemio del Decameron in poi; così pure, è importante che la riflessione di D’Avenia rimetta al centro il sacrificio. Tuttavia nel libro il sacrificio, condizione necessaria perché l’amore si faccia storia (strappato all’esaltazione puntiforme, alla coazione a ripetere), perché appunto salvi, è normalmente il sacrificio delle donne che salva… gli uomini. Se salvi anche le donne che lo praticano, al di là della gloria postuma di un nome legato a quello di qualcuno cui si è permesso di essere grande, non è chiaro. Non si può che augurarsi che l’autore ne faccia oggetto di una prossima indagine, magari aiutandoci a riconsiderare nel suo complesso la condizione femminile. Sarà possibile sfuggire all’alternativa che al momento la strangola, tra una ‘liberazione’ che paga il prezzo di negarne l’essenza e la riproposizione della tradizionale subalternità? Elogiata, riconosciuta nel suo valore, d’accordo, ma confermata?


A cura di: 

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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