Le parole tra noi leggere

AUTORE: Lalla Romano

EDIZIONI: Einaudi, 2018

Le parole tra noi leggere (il titolo è un verso della poesia di Montale Due nel crepuscolo) vince il Premio Strega nel 1969, esattamente cinquant’anni fa. Una buona occasione per verificarne la tenuta. E per verificare anche la consistenza dell’aggancio all’attualità che al libro portò in sorte il ’68: la vicenda del rapporto con un figlio ‘difficile’, eternamente spiazzante e ribelle alle regole poteva allora essere letta anche in questa chiave, come la prefigurazione dell’inasprirsi del rapporto tra le generazioni, del venir meno di codici condivisi. Alla rilettura odierna, però, questo aspetto appare periferico, se non irrilevante, lasciando in primo piano la vera questione: che cosa succede quando un figlio è ‘strano’? ‘Strano’, non francamente patologico -lì le cose sono altrettanto dure, ma diverse.

Mangia pochissimo, non vuole lavarsi, si veste male, ammassa in camera sua cianfrusaglie improbabili, la trasforma in una tana, non saluta mai nessuno, si nasconde se arrivano ospiti … e i conoscenti cercano di consolare, ma proprio così confermano i peggiori timori…

E la scuola? Quello è il supplizio più atroce. Vanno tutte male, dall’asilo al liceo, paritarie o statali. Dappertutto fa in modo di farsi giudicare negativamente, non fa nulla, è apatico. I rari slanci sono espressi in modo anticonvenzionale e vengono ignorati o fraintesi. Soffre, manifestamente soffre.

Pare abbia molte attitudini, meno quella di fare i suoi doveri”: e chi è, dunque, questo essere adorato, a volte dolorosamente adorabile, a volte odiosamente insopportabile, sempre urticante, anzi scorticante? A volte la madre ne fa una sorta di ‘ritratto dell’artista da giovane’, poi subito esprimendo la consapevolezza dei tranelli dell’idealizzazione consolatoria; altre volte intravvede, con terrore e rassegnazione, la vocazione del barbone, poi subito pentendosene come di una mancanza di rispetto, di una resa al perbenismo: “Mentre riconoscevo in lui fraternamente l’attitudine anarchica, avrei voluto come tutte le madri che diventasse un rispettato homme de bien. In realtà detestavo l’homme de bien; però mi sorprendevo a considerarlo comodo. …Immagine subito dopo odiosa, e del tutto irreale comunque”.

Lalla Romano racconta il suo rapporto con il figlio Piero in prima persona, attraverso minuziosi referti (oggetti, compiti scolastici, fotografie, lettere), ai referti cedendo continuamente la parola e riprendendola poi per dar conto delle sue reazioni di allora e per giudicarle. E il libro è anche la storia della madre, con il suo amore, il suo senso di colpa, il suo terrore, i suoi continui errori.

Non si tratta certo di un racconto ingenuo: la Romano è consapevole delle trappole del ‘mammismo’ (che pure le fu rimproverato), così come di quelle del realismo: “Per me la veridicità è un aspetto della verità (poetica). Semplicemente, la veridicità non mi fa paura. So che in un senso più profondo è anch’essa illusoria. Ma per me è eccitante.”

Io sentivo la necessità, l’urgenza di dare forma (scritta) al personaggio che lui era. Comporre cioè un ‘ritratto dell’artista da giovane’, quell’artista che lui non avrebbe mai accettato di essere.”

La Romano non gioca con la psicanalisi, tuttavia mette in scena le dolorose consapevolezze di una madre non ingenua, per nulla risparmiata dalla profondità istintiva della relazione col figlio e insieme destinata a guardarla con sospetto, a portare il peso dell’autocritica, guardinga nei confronti dei sentimenti e del loro poco lusinghiero sottofondo, sempre perdente, sempre speranzosa, sempre delusa, sempre colpevole, sempre tesa:  “Io penso sempre a lui con un brivido, come in previsione di una disgrazia incombente”. Ma qual è la radice della ‘disgrazia incombente’? “… quel pessimismo che purtroppo in lui era organico e si manifestava appunto col disgusto davanti al cibo, all’impegno vitale”.

Quale contrappasso, per la madre intellettuale, vedersi di fronte l’incarnazione, per così dire, della cultura del ‘900!  Quel ‘pessimismo organico’ che , se in Montale si è espresso in poesia lasciando spazio, sia pure in percentuale ridotta, alla vita, altro esito ha avuto in un altro amico della Romano, Cesare Pavese.

Con questo non si vuole suggerire alcuna eziologia, il libro non dà risposte: “capire tutto di lui una volta per tutte? Dev’essere che non c’è mai, una volta per tutte”.

Con questo libro umanamente molto costoso ( ne seguì la rottura dei rapporti con il figlio), la Romano ha dato forma, secondo la sua espressione, a un lungo, imperfetto amore, a un lungo dolore; li ha strappati all’oblio e alla morte, li ha salvati. Le parole che a lei è stato dato di trovare accompagnano e forse in parte salvano altri lunghi amori, altri lunghi dolori.

“Ma il mio amore sbagliato, persecutorio, è il tema apparente del libro. Il vero protagonista è un sentimento più vasto. Un’amica triestina mi aveva suggerito come epigrafe un verso di Saba. Allora non ne compresi la purezza. Mi pareva “troppo umano”. E’ l’ultimo verso del sabiano ‘Ulisse’:e della vita il doloroso amore.”


A cura di: 

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e insegna al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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