Gli anni ’80 in musica: un decennio controverso

Proviamo a riprendere il filo del discorso da quella fine anni ’70 su cui ci siamo interrotti nell’articolo storico precedente. Sì, perché come al solito noi cataloghiamo per decenni, ma la storia non va per cifre tonde, ovviamente. Ed allora è ancora una volta da qualche anno prima che bisogna far cominciare il racconto, da quella seconda metà degli anni ’70 in cui nel Regno Unito esplode il Punk, violenta e dissacratoria risposta (musicale e sociale) al sistema che opprime, alla società che schiaccia ed anche a certa musica che si ritiene non essere in grado di esprimere il grido dei giovani ribelli. Il raffinato Progressive Rock che andava per la maggiore qualche anno prima viene soppiantato da una musica violenta, sostanzialmente basata su un fai-da-te musicale che non prevedeva studi o grande conoscenza musicale, ma immediatezza, atteggiamenti violenti, testi senza peli sulla lingua. Non che non ci fosse stato il rock’n’roll, ma qui l’asticella si alza (o si abbassa, valutate voi) e si crea il genere più sporco, marcio (punk, per l’appunto) visto finora nella storia della musica leggera. Il monumentale libro di Jon Savage Il sogno inglese (Arcana Libri, 1994 e 2002) descrive per filo e per segno la complicata ed intrecciata storia del Punk inglese, includendo anche un singolare punto di vista sull’effettiva rilevanza sociale del fenomeno, o meglio sull’effettiva ‘protesta dal basso’, che analizzati alcuni fatti accaduti forse è stata come guidata e presto è diventata anch’essa business.

In ogni caso quello del Punk è un fuoco che si estingue piuttosto in fretta, sull’onda dello slogan “It’s better to burn out than to fade away” che, a chiunque sia attribuito, riassume in poche parole l’estetica – se così si può chiamare – del Punk: meglio bruciare in fretta (e lasciare un segno) che spegnersi piano piano e scomparire. Non a caso la frase verrà ripresa non solo da Neil Young nella sua My My, Hey Hey, ma anche dal Grunge, che del Punk vivifica le ceneri una decina di anni dopo e di cui parleremo quando affronteremo il decennio successivo a questo.

Già negli ultimi anni dei ’70 avvengono le prime commistioni fra il Punk ed altri generi, commistioni che caratterizzeranno tutti gli anni ’80 facendo esplodere il Rock in decine di sottogeneri e lasciando emergere il più leggero e spesso – non sempre – scanzonato Pop. L’esempio più eclatante è forse quello dei Police, che pur non essendo i primi ad attingere al Reggae (la musica Giamaicana che negli stessi anni sviluppa una importante influenza), lo mescolano con il Punk e creano una sintesi esplosiva, grazie anche alla capacità di scrivere brani di successo del loro leader, Gordon Matthew Sumner, meglio conosciuto come Sting. Ma anche Elvis Costello, che pure dal Punk parte, vi aggiunge una vocalità melodica ed una qualità diversa nello scrivere le canzoni che lo fa sopravvivere alla scomparsa del Punk in quanto tale.

Ma si aprono quindi finalmente gli anni ’80 ed il sopraggiungere di MTV (e delle corrispettive realtà televisive nazionali come l’italiana Videomusic) sposta di nuovo l’asse della musica mondiale verso il Pop, che avrà nel decennio il predominio sul Rock che si avvita un po’ su se stesso, andando al tempo stesso a rendere un po’ più ‘leggeri’ anche i repertori di altri generi, come il cantautorato e la musica d’autore.

Il giudizio appena esposto è giocoforza riduttivo, anche perché nello stesso pop si trovano canzoni validissime (come sempre) che a 25-30 anni di distanza si guardano come piccoli capolavori. Non a caso molta della musica odierna guarda agli anni ’80 non solo come stereotipo di immagini e contesti, ma come un decennio che ha prodotto buona musica. Il cosiddetto Brit-Pop affonda le sue radici proprio qui, nell’opera di Duran Duran, Spandau Ballet, ma anche Howard Jones, Nik Kershaw, i più raffinati Housemartins – acclamati come i nuovi Beatles e rapidamente scomparsi nel nulla – o spostandosi verso la cosiddetta New Wave, i Cure. Molta importanza assumono, sempre nel Regno Unito, la nascita del Dark, su tutti citiamo i Joy Division, ma anche del Glam Rock (anche se la categoria è un po’ riduttiva) dei Queen, mentre continuano le carriere di star come Elton John e David Bowie, senza dimenticare l’esplosione della musica elettronica con Depeche Mode e Ultravox. Occorre citare anche lo Ska dei Madness e degli Specials, e non dimentichiamo che negli stessi anni acquista peso, musicale e di contenuto, la carriera degli U2, proveniente da quell’Irlanda da cui provengono anche i Pogues, iniziatori di un certo combat-folk, radici popolari e spirito trasgressivo.

E nel nuovo mondo? Altra esplosione e frammentazione di generi, mentre i cantautori storici come Dylan e Springsteen assestano colpi a fortune e qualità alterne, lasciando spazio al cosiddetto Rock indipendente, che da questa, ma anche dall’altra parte dell’oceano fa esplodere la musica degli americani R.E.M. e Hüsker Dü e dei britannici Pixies e Smiths, per citare un poker di riguardo. Non dimentichiamo la ripresa dell’Hard Rock, sia nel filone più genuino dell’Heavy Metal che in una – pur a tratti interessante – commercializzazione del genere, presente nell’ esperienza di band come Guns ‘N’ Roses o Def Leppard.

Nel nostro paese, per non volerla fare troppo lunga, oltre ad una ripresa di interesse (e di interessi) intorno al Festival di Sanremo si assiste ad una intromissione di tutti i generi citati sopra, riveduti, reinterpretati e mescolati in vario modo alla tradizione tipicamente italiana. Avevamo finito nel decennio precedente con l’esperienza di grandi cantautori (Guccini e De André) che incontrano grandi band, iniziamo questo con l’esperienza simile degli Stadio con Lucio Dalla che proprio in questo decennio aggiungerà al suo repertorio album e singoli di grande valore. In mezzo a tanto pop, anche molto leggero, che va per la maggiore negli ascolti radiofonici e televisivi, consolidano i loro repertori diversi cantautori, a volte inventando un nuovo sound. È il caso del pop di stampo folk di Angelo Branduardi, che in questi anni arriva anche al grande pubblico, o dell’invenzione del Neapolitan Sound creato da Pino Daniele, che mescola la tipica melodicità partenopea con il rhythm’n’blues, il funky e la sua anima nera. Notevoli passi in avanti in questi anni compiono Renato Zero e Claudio Baglioni, con canzoni sentimentali ma al tempo stesso di grande spessore. Franco Battiato espande invece i confini della canzone pop inserendo elementi mediterranei mentre Zucchero e Ramazzotti iniziano le loro carriere che li porteranno, insieme a Laura Pausini e pochi altri ad assurgere al ruolo di star internazionali. Non dimentichiamo l’esplosione di Vasco Rossi e verso la fine del decennio di Ligabue, provenienti dalla stessa zona ed emblemi entrambi di un Rock all’italiana destinato a grande successo.

Un pensiero finale va all’estate del 1983, in cui qui da noi furoreggiarono due canzoni molto leggere come Vamos a la playa dei Righeira e Tropicana del Gruppo Italiano. Apparentemente due tormentoni estivi (e lo furono), in realtà due canzoni che parlavano di una ipotetica situazione post-catastrofe nucleare. Tema trattato in tutt’altra maniera da Sting nella sua canzone Russians, inclusa nel suo album di esordio come solista The Dream Of The Blue Turtles,  del 1985, in cui chiede, quasi implora i grandi del mondo di far smettere quel clima di terrore sottile ma diffuso, che da un momento all’altro, per il capriccio politico-strategico di un grande della terra, avrebbe potuto causare la catastrofe. Il film Wargames – Giochi di guerra in cui vi si arriva ad un passo per lo scherzo di un adolescente è anch’esso del 1983.

Fortunatamente dove non arriverà il Rock arriverà invece un Papa, o meglio il suo principale. Da lì a pochi anni il mondo vedrà la Perestrojka, il crollo del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, causati non certo da una canzone rock ma da un’azione di tutt’altro tipo. Tuttavia la musica leggera di quegli anni vedeva il pericolo ed in qualche modo lo cantava. Come i Queen - ancora loro, e con loro chiudiamo – che nel 1984 nella canzone Hammer To Fall tuonavano a pieno volume: “Noi che siamo cresciuti alti e orgogliosi all’ombra del fungo atomico, convinti che le nostre voci non si potessero sentire, vogliamo urlare sempre più forte: per cosa diavolo stiamo lottando? Arrenditi e non sentirai alcun male, hai giusto il tempo di dire le tue preghiere, e sarà il tempo del martello che cade”. Certo, il martello che cade, la fine della vita, è un momento che attende tutti, ma perlomeno, per fortuna, non è arrivato a causa della catastrofe nucleare. E la musica è rimasta, portandoci verso i successivi anni ’90.

 

 

Walter Muto   


 A cura di:

WALTER MUTO, laureato in Lettere e con i più vari studi musicali alle spalle, decide di dedicarsi prima con grande passione e poi come lavoro alla musica, in particolare a quella leggera. La sua occupazione è fare musica, parlarne e scriverne a 360 gradi.  Oltre ad aver scritto diversi libri e curare una rubrica per il mensile Tracce, collabora da 35 anni agli spettacoli musicali per ragazzi della Sala Fontana di Milano, produce spettacoli insieme a Carlo Pastori e negli ultimi anni si dedica a progetti musicali per il sociale,
con una attività al Carcere di San Vittore ed una in due residenze per disabili psichici. 
Più info su www.waltermuto.it  

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