MATERIALI PER L'INSEGNAMENTO - MUSICA
I MANESKIN E IL LORO TEATRO D'IRA - VOL.1
I Måneskin e il loro Teatro d’Ira - Vol. I
L’ultima volta abbiamo parlato del Festival di Sanremo, stavolta vorrei di nuovo restare nel presente (ma - lo capiremo strada facendo - si fa per dire) e stringere l’obiettivo su chi quel Festival lo ha vinto, e cioè la band dei Måneskin. Su di loro si è detto tutto e il contrario di tutto, come in una sorta di caleidoscopio di menzogne dette apposta e cose vere, cosa ormai tipica delle moderne forme di comunicazione, velocissime ed in cui si fa fatica a distinguere. Le principali dicotomie: band vera vs. band costruita a tavolino; ragazzi che hanno fatto gavetta vs. tipico prodotto da talent show; originali vs. pura copia del passato. E molto altro ancora, fra cui giova ricordare “finalmente il rock ha vinto a Sanremo”, quando già quasi trent’anni fa vi aveva trionfato un brano come Mistero di Enrico Ruggeri, per certi versi molto più rock dei Måneskin.
In ogni caso, i pareri pro, contro, dentro e attraverso, già e non ancora potete reperirli in rete, io decido di ascoltare l’album, Teatro d’ira – Vol. I. Quello che segue ne è una breve analisi pezzo per pezzo, anche se dal titolo (e dall’iconografia) si capisce già molto: il riferimento al passato è ingombrante, direi invadente, ma soprattutto l’ira è teatralizzata, cioè si potrebbe sillogisticamente concludere, è messa in scena. Se è reale o no ditelo voi, io comincio ad ascoltare.
Zitti e buoni l’abbiamo sentita e strasentita, possente pezzo rock basato su killer riffs, suonato e confezionato bene, che può essere riassunto in “siamo fuori di testa, ma diversi da loro”, che poi è un po’ il tema di tutto l’album. Avanti con la seconda traccia.
Coraline comincia con una specie di saltarello e poi si trasforma in un rock dal passo lento e possente, potremmo dire - per stile - à la Red Hot Chili Peppers. Il testo ben descrive una dinamica molto presente ai nostri tempi, l’esperienza di una ragazza ansiosa e che non vuole più uscire. Come un racconto cornice, il brano si chiude come era cominciato, chitarra e voce.
Lividi sui gomiti, riff possente distorto in minore, nelle strofe ha un flow di testo inarrestabile ma basato sostanzialmente su una non-melodia, poche note ripetute ossessivamente. Dueminutiequarantasei che passano veloci, classico inno “noi-contro-voi” dei ragazzi cresciuti per strada. Francamente, non mi viene molto voglia di risentirla, un po’ troppo stereotipo.
I Wanna Be Your Slave parte cassa in 4 e voce, si aggiunge il basso che doppia la voce in unissono, e poi la chitarra ancora allo stesso modo. Il riff cambia durante il ritornello, e poi un piccolo inciso strumentale mescola ancora un po’ le carte, ma non abbastanza per salvare un pezzo piuttosto piatto. La sensazione cliché rimane anche qui, aggravata dall’inglese scolastico.
Con In nome del padre (non si capisce se il padre è maiuscolo o minuscolo, i titoli sia su spotify che sulla copertina dell’album sono in tuttomaiuscolo – vediamo se si capisce ascoltando) siamo in piena area-Led Zeppelin. D’altronde si sa che la storica band inglese sta ben salda fra i principali riferimenti musicali dei quattro ragazzi. Nella melodia (diremmo forse meglio monodia, nel senso che è una specie di tono retto), forse appare lontanamente (e mi perdonino per la citazione) il fantasma dei Rage Against The Machine. In effetti il ritornello cita “in nome del padre del figlio spirito santo”, ma dal testo non capisco bene il riferimento, essendo le liriche un attacco agli altri che non mi capiscono, un perentorio invito a “starmi a un metro dal culo” e “ho scelto di essere sempre uno, e uno soltanto” - e credo che da questi due estratti si intenda tutto sommato il tema della canzone. Mi pare che titolo e ritornello siano lì più per incuriosire e far parlare che non per altro. D’altronde un riferimento a diavolo e acqua santa ancora mancava.
Traccia 6, For Your Love, ennesimo pezzo in minore, evidentemente è una scelta. Appena finisce controllo se lo sono tutti (non manca molto, le tracce sono 8, per un totale di una mezz’ora di musica). Forse perché non seguo tanto il testo, ma l’unica cosa che mi viene da scrivere di questa canzone è che mi sono annoiato.
La paura del buio ripercorre lo stesso stile, riff possente e testo assertivo, basato su un superomismo dichiarato, sulla capacità di saper stare ritto in piedi di fronte a qualunque situazione. Riassumiamo: “anche quando sarò per terra distrutto continuerò a non avere paura del buio”.
E siamo in fondo: Vent’anni è ovviamente molto diversa da quella di Massimo Ranieri, che esplose a Canzonissima la bellezza di 50 anni fa. È una slow rock ballad, l’avevamo già sentita qualche mese fa, singolo che anticipava l’album. Un ben confezionato manifesto, dichiarazione d’intenti di un (vero o presunto) modo di essere: “cercare sempre la libertà / e andare un passo più avanti / essere sempre vero / spiegare cos’è il colore a chi vede bianco e nero”.
Bene, che idea mi sono fatto di tutto questo? Estraggo qualche veloce considerazione, oltre a quello già emerso fra i brani. Se volete poi approfondire ulteriormente, vi linko l’articolo in cui mi sono ritrovato di più, quello di Claudio Todesco su Rolling Stone .
Intro: confermo i pezzi sono tutti in minore. Punto.
Uno: i quattro ragazzi suonano, anche dal vivo, il disco, prodotto bene, è arrangiato su misura per loro, senza orpelli aggiuntivi o altri suoni, eccezion fatta per il pezzo portato a Sanremo. Nel resto dei casi è una band che suona, grossomodo con il sound che svilupperebbe live, e una voce solista che canta. Diciamo, citando Todesco che l’album “trasmette il feeling di un gruppo che suona dal vivo”.
Due: i quattro hanno sicuramente un grande amore per il rock storico, per l’appunto dai Led Zeppelin a venire in giù, ma la loro estetica, come pure la possibilità di essere lì, ora è maturata all’interno di un talent show, con tutte le questioni (che molti hanno posto) al riguardo. Lo stesso fatto che una major come la Sony stia investendo (e non poco) su di loro, in un mercato asfittico come quello attuale appare sempre più come il riempire una nicchia che manca, e che potrebbe riempire solo un gruppo giovane ed incazzato come loro.
Tre: quanto poi questa incazzatura sia vera o presunta, vissuta o costruita ad arte è oggetto di molte discussioni. Certo è che l’iconografia, le pose assunte sul palco di Sanremo e derivate da foto di gruppi storici, i testi un po’ stereotipati e l’ispirazione palese al rock del passato (finanche nella scelta dei riff) fa capire che molto di quello che fanno è studiato, preparato e sorretto da una attenta strategia di marketing.
Quattro: Teatro d’ira – Vol. I, il titolo fa pensare. Con un titolo così balzi subito nel passato, ma soprattutto nel dichiarato intento che quell’ira non sia poi così vera. L’incazzatura dei rocker storici (pur essendo anch’essa diventata in molti casi moda e cliché) era legata ad un certo periodo e spesso molto più vera, portando in molti casi a destini segnati e conclusioni tragiche. Non che debba sempre finire male, ma portando certe domande lancinanti, a volte capita, è capitato.
Cinque: non c’è, nel senso che non voglio dire troppo, ma far ragionare anche chi vorrà immergersi nell’ascolto e in una sua valutazione, sempre tenendo presente, come ho cercato di fare io, che i fattori in gioco sono molti e che l’ascolto (possibilmente fatto bene, in cuffia e senza fare altro, magari con i testi davanti) è imprescindibile. Buona musica e alla prossima.
Walter Muto
A cura di:
WALTER MUTO, laureato in Lettere e con i più vari studi musicali alle spalle, decide di dedicarsi prima con grande passione e poi come lavoro alla musica, in particolare a quella leggera. La sua occupazione è fare musica, parlarne e scriverne a 360 gradi. Oltre ad aver scritto diversi libri e curare una rubrica per il mensile Tracce, collabora da 35 anni agli spettacoli musicali per ragazzi della Sala Fontana di Milano, produce spettacoli insieme a Carlo Pastori e negli ultimi anni si dedica a progetti musicali per il sociale,
con una attività al Carcere di San Vittore ed una in due residenze per disabili psichici.
Più info su www.waltermuto.it