Folk = Popolo: ma sarà ancora vero?

 

Siamo in un tempo in cui si parla tanto di sovranismi e populismi. Non ho la cultura né la capacità dialettica di affrontare tali temi dal punto di vista politico o sociologico; quello che so è che accanto alla musica colta e - da dopo il rock’n’roll - a quella cosiddetta pop, cioè leggera di grande consumo, scorre un fiume di musica proveniente dal popolo, nel passato non scritta e tramandatasi per tradizione orale, denominata in Italia musica popolare (da non confondere con l’inglese popular music, cioè musica di grande diffusione – il pop per l’appunto) e nel resto del mondo folk. Folk, che è una derivazione del tedesco wolk, cioè popolo.

Potremmo chiamarla musica tradizionale – perché proviene dalla tradizione - oppure etnica – che appartiene ad una particolare popolazione – o in un periodo relativamente più recente, world music. Ogni popolo ha musiche, filastrocche e canzoni che provengono dal passato e costituiscono la memoria storica di un villaggio, una zona, una tribù. Questa musica acquista fisionomie diverse alle differenti latitudini: in ordine sparso, la tarantella in Sud Italia, il fado in Portogallo, il flamenco in Spagna, i jigs, reels, bagpipe e danze varie in Irlanda, e poi nel nuovo continente il blues nel sud degli Stati Uniti (ma proveniente da radici africane), il country & western con l’appendice “ribelle” e più tecnica del bluegrass. Poi il samba in Brasile, il mariachi in Messico, la pizzica in Puglia, e l’elenco risulterebbe ancora lungo a volerne citare ancora, e non abbiamo nemmeno sfiorato l’Oriente e l’Africa.

Qualche anno fa abbiamo fatto con un gruppo di amici una panoramica su alcune canzoni provenienti da questi mondi con il libro Amazing Grace – canzoni e storie di gospel, blues, soul e folk music, pubblicato da Itaca (volendo è disponibile a questo link). Ci sembrava necessaria una guida, compilata per accenni ed ovviamente incompleta, per orientarsi almeno minimamente in questo mare magnum di tradizioni, storie, ritmi, melodie e mondi lontanissimi l’uno dall’altro. YouTube è una miniera senza fondo di contributi in merito, ma è facile perdersi senza una bussola. In ogni caso c’è tantissimo materiale, fino a una quindicina di anni fa di difficilissima reperibilità ed ora alla portata di tutti.

Le forme più particolari sono naturalmente appannaggio dell’etnomusicologia. Assolutamente fondamentale il lavoro di raccolta di musica tradizionale compiuto negli Stati Uniti da John e Alan Lomax, padre e figlio, nei dieci anni precedenti il coinvolgimento americano nella seconda guerra mondiale, fra il 1933 ed il 1942,  setacciando le zone rurali specialmente del Sud degli Stati Uniti, registratore alla mano per catturare reperti originali tramandati da secoli. Simile al loro fu il lavoro svolto in Italia dall’etnomusicologo Roberto Leydi ed altri sulle sue orme.

Potremmo anche dire che la musica folk si è un po’ staccata dal popolo, diventando per l’appunto una forma artistica proveniente dal passato – e quindi da studiare – ma che difficilmente o per la minima parte informa la musica che ascolta la maggior parte delle persone. Con un gioco di parole potremmo riassumere: musica popolare non più così popolare! Se negli anni ’60 un brano come La Filanda di Milva poteva arrivare in cima alle classifiche di vendita, oggi questo sarebbe impensabile. Ma si pensi anche alla popolarità, non solo locale, di Jannacci, o dei romani Vianella o di Modugno, anche se non tutti questi rapidi esempi forse calzano a pennello. Nel 2004 il direttore d’orchestra Riccardo Muti sosteneva che la musica che aveva il più alto valore sociale e comunicativo era il rock. Oggi forse si potrebbe dire la stessa cosa per il rap, dove peraltro talvolta si trovano forti appartenenze territoriali e dialettali, come per il napoletano Clementino o i romani old school Colle Der Fomento.

Ma il discorso, come sempre accade, si farebbe troppo ampio. Da dove si potrebbe cominciare a cercare, per rimanere nel folk propriamente detto e senza cadere in generi troppo di nicchia? In Italia si potrebbe partire da Davide Van De Sfroos, all’anagrafe Davide Bernasconi, poeta del lago di Como e dalla sua capacità di raccontare storie in un dialetto che è una vera e propria lingua, a cui non manca niente, anzi il cui incedere semmai aggiunge fascino al racconto, una volta decodificato. Si pensi ad una canzone come 40 pass, vera e propria mini-opera nell’arco di tre minuti. Poi si potrebbe andare dagli irlandesi Chieftains, arzilli vecchietti in circolazione dagli anni ’60 che provenendo dal folk irlandese, nella loro vasta produzione discografica hanno via via incontrato artisti provenienti anche da altre tradizioni, come il chitarrista Ry Cooder, o una serie di musicisti messicani nell’album San Patricio. Dalla Galizia viene invece Carlos Nuñez, suonatore di flauto diritto e gaita (un tipo di cornamusa), creatore di bellissime melodie che affondano le loro radici nella tradizione del suo popolo. Negli Stati Uniti poi c’è tutto uno stuolo di giovani artisti che prendono le mosse dal folk tradizionale statunitense per scrivere nuove musiche e nuove canzoni, proseguendo in qualche modo il filone che proviene dagli anni ’60, e cioè da Stephen Stills, Neil Young, David Crosby, Joni Mitchell ed anche James Taylor e Paul Simon, tutti peraltro ancora in più o meno florida attività. Alcuni nomi per tentare di andare verso la conclusione: la texana Sarah Jarosz; Becca Stevens, originaria del North Carolina; il mandolinista Chris Thile e la sua band di progressive bluegrass, i Punch Brothers. Hanno preso spunto dal folk inglese, specie nei loro primi lavori, anche i Mumford & Sons, che però negli ultimi tempi si sono un po’ staccati da questa radice. Come pure dal cosiddetto alt-folk era partito Bon Iver, ora molto più a suo agio fra campionamenti e suoni elettronici. Ricordiamo anche, stavolta davvero concludendo – e tutti statunitensi – i Fleet Foxes, gli Iron & Wine ed il cantautore Sufjan Stevens, fra tutti il più intimo, che non si limita solo ad atmosfere folk, ma che con il suo album del marzo 2015 Carrie & Lowell, interamente dedicato alla madre appena scomparsa, è tornato alle sue origini con testi particolarmente intimi e poetici ed arrangiamenti affidati interamente a strumenti acustici e tradizionali.


 A cura di:

WALTER MUTO, laureato in Lettere e con i più vari studi musicali alle spalle, decide di dedicarsi prima con grande passione e poi come lavoro alla musica, in particolare a quella leggera. La sua occupazione è fare musica, parlarne e scriverne a 360 gradi.  Oltre ad aver scritto diversi libri e curare una rubrica per il mensile Tracce, collabora da 35 anni agli spettacoli musicali per ragazzi della Sala Fontana di Milano, produce spettacoli insieme a Carlo Pastori e negli ultimi anni si dedica a progetti musicali per il sociale,
con una attività al Carcere di San Vittore ed una in due residenze per disabili psichici. 
Più info su www.waltermuto.it  

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