CINEMA ED ESTATE. I SUGGERIMENTI DI SENTIERI DEL CINEMA

Ci sembra che l’estate sia un momento buono per recuperare alcuni dei film più interessanti usciti durante il periodo più ricco della stagione cinematografica, che in genere inizia a settembre col Festival di Venezia e si conclude col Festival di Cannes a maggio. Ecco alcuni dei film che reputiamo più interessanti, e che possono essere recuperati sulle piattaforme o nelle arene estive.

 

Oppenheimer di Christopher Nolan

Come in alcune sue opere precedenti, il regista asseconda la sua passione per le strutture della trama non lineari nel film, ma la storia del fisico teorico J. Robert Oppenheimer (Cillian Murphy) trae un particolare vantaggio da questo approccio. Evitando volutamente la classica routine del film biografico, il regista evita una marcia lenta e costante verso lo sviluppo della bomba atomica da parte di Oppenheimer come parte del Progetto Manhattan durante la Seconda Guerra Mondiale, optando invece per orbitare attorno alle due pietre miliari più importanti della vita dello scienziato: la creazione della bomba stessa e l’udienza di sicurezza alla quale fu sottoposto negli anni 50 per la sua successiva (e volutamente pubblica) rinuncia alle armi nucleari. In tutto il film, Oppenheimer alterna la fotografia a colori e quella in bianco e nero, cogliendo scorci del primo lavoro teorico del suo protagonista e della sua successiva applicazione pratica. Fa luce anche sulle sue relazioni giovanili con la politica di sinistra, anche dichiaratamente comunista, e sul modo in cui quelle visioni del mondo tornano a farsi vive e ad angustiarlo dopo la guerra. Nolan si tiene ben lontano dai cliché storici del film biografico sul grande uomo. L’arroganza dello scienziato viene regolarmente mostrata come la sua peggiore caratteristica, costringendolo a una serie di errori tattici quando si tratta di navigare nell’impervio terreno politico della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale gli Stati Uniti furono brevemente alleati con l’Unione Sovietica, proprio mentre la nazione intraprendeva una guerra ideologica contro il comunismo. È che gli addetti militari gonfiarono (probabilmente in modo involontario) il senso di invulnerabilità politica di Oppenheimer mentre gli davano totale libertà sul Progetto Manhattan, con l’uomo che avanzava richieste coraggiose su personale, accessi di sicurezza e risorse. Ma Nolan ricorda sempre in modo sottile che i vertici del Pentagono erano quelli che davvero tenevano il coltello dalla parte del manico in questa relazione. E quando il fisico si ritrovò coinvolto in una caccia alle streghe subdolamente orchestrata da un rivale, il capo della Commissione per l’Energia Atomica Lewis Strauss (Robert Downey Jr), la sua autorità venne rivolta contro di lui con disgustosa facilità dallo stesso governo che contava su di lui per porre fine alla guerra e intimidire i russi. Oppenheimer ci colloca in modo fermo e tragico all’interno di due situazioni emblematiche: da una parte la corsa del Progetto Manhattan per porre fine alla guerra, e dall’altra il travaglio personale del protagonista, costantemente pressato dalle purghe maccartiste durante “il Pericolo Rosso” del dopoguerra. Non è un caso che il regista e sceneggiatore britannico descriva con precisione millimetrica la detonazione della bomba di prova nel deserto del New Mexico, dove Oppenheimer e il suo team condussero le loro ricerche, ma eviti di mostrare le bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Questa è una scelta morale, ed è quella che imposta perfettamente il resto della rappresentazione del film: il terrore personale di Oppenheimer per ciò che aveva scatenato e la sua successiva dedizione alla causa della non proliferazione e contro la bomba all’idrogeno. Rifiutando di trasformare la carneficina storica in spettacolo, Nolan mantiene la vera attenzione sulle profonde questioni morali imposte dall’esistenza della bomba e sul modo in cui da allora ha plasmato la politica internazionale. È interessante anche come Oppenheimer si unisca ad altri film di Nolan che tendono a smitizzare i suoi protagonisti, non per preservare l’apparente inesplicabilità della fisica nucleare, ma minando l’idea dell’obiettività della scienza. La ricerca e lo sviluppo di Oppenheimer possono obbedire alle leggi fondamentali dell’universo, ma la scienza è stata e probabilmente rimarrà per sempre soggetta alla manipolazione da parte di esseri umani che di solito non la capiscono nemmeno. Anche questa è un’indicazione, sia dei fallimenti di Oppenheimer che dell’affermazione del potere da parte di chi veramente lo detiene. Durante il processo dello scienziato davanti a un tribunale farsa negli anni 50, i suoi amici e i suoi cari gli chiedono perché continui a sottoporsi a questo abuso invece di ammettere semplicemente la sua sconfitta. Ma come non vedere come questa accettazione sia per Oppenheimer una forma di dolorosa ma ineludibile espiazione personale?

 

Perfect Days di Wim Wenders

Con Perfect Days Wim Wenders punta alla semplicità, seguendo Hirayama (Yakusho Kôji), un uomo di mezza età che vive da solo, mentre trascorre la sua giornata: dopo essersi svegliato piega con calma il suo futon, annaffia le piantine del suo piccolo appartamento, si mette la tuta e col furgoncino inizia il suo lavoro, pulire i gabinetti pubblici di Tokyo. Nelle pause fotografa alberi, ascolta rock americano, legge classici della letteratura e assapora i comuni istanti della giornata. Attraverso l’umiltà di Hirayama, Wenders realizza un film che si concentra su piccoli momenti della vita di un uomo, per portare alla luce verità universali.

Perfect Days si muove sulla sottile linea che separa il commovente dallo sdolcinato; Wenders potrebbe rappresentare Hirayama come un uomo modesto che sa stare al suo posto, come quei ricchi ipocriti che dicono di invidiare i poveri perché vivono nel “mondo reale”. In realtà il regista sembra esprimere tutto il suo rimpianto per un mondo pre-digitale: il protagonista legge libri che compra in una botteguccia di testi usati, ascolta audiocassette che riavvolge con l’uso di una matita (e se non è nostalgia questa scena…), usa poche parole ma è prodigo di sguardi e piccoli cenni; quando a sorpresa si presenta una nipote adolescente che vuole sfuggire al controllo della madre, non si vergogna del suo lavoro, suscitando il rispetto e l’emulazione da parte della ragazza. La dignità dell’uomo, che gli permette di sapersi rapportare con le persone, di suscitare il loro rispetto, di essere generoso, ma anche di non farsi mettere i piedi in testa, è quella di chi fa un lavoro e lo fa al meglio delle sue possibilità, non importa quanto umile possa essere. Hirayama è un uomo libero, che sa prendersi cura delle cose, delle piante, delle persone; una lezione di armonia per la quale dobbiamo essere grati a Wim Wenders.

 

One Life di James Hawes

Dicembre 1938: venti di guerra spirano nell’Europa centrale. Nella Cecoslovacchia in cui sembra imminente l’invasione del Terzo Reich di Hitler, un giovane agente di borsa da Londra si reca a Praga e trova migliaia di famiglie fuggite, in condizioni disperate. Il giovane Nicholas Winton si prodiga, insieme ad altri volenterosi, per salvare centinaia di bambini profughi (dalla Germania e dall’Austria), molti dei quali ebrei, organizzando l’Operazione Kindertransport: l’obiettivo era far partire più treni possibile, con bambini separati dai genitori in attesa di tempi migliori e indirizzati a famiglie disposte a ospitarli, prima che le frontiere si chiudano definitivamente. «Perché se posso fare qualcosa, devo farlo». Cinquant’anni dopo quell’uomo ormai anziano cerca di parlare della sua operazione a giornali e altri soggetti che possano aiutarlo: non per rievocare ed enfatizzare la sua opera di salvatore di ben 669 bambini, ma per sapere cosa ne fu di loro e soprattutto di quelli rimasti su un treno che fu bloccato mentre era pronto per partire, nonché di tutti quelli che non poté portare in salvo in Inghilterra, incolpandosi sempre di non essere stato in grado di aver fatto di più. «Non puoi salvarli tutti» gli diceva la madre che pure faceva parte della “squadra” di intervento. «Questo lo devi perdonare a te stesso». Ma lui non ci riesce. Eppure, la sua esistenza che si trascina tra ricerche e malinconie è destinata a riservargli una stupefacente sorpresa. La vicenda di Nicholas Winton, come racconta One Life, è diventata di dominio pubblico nel Regno Unito nel 1988, dopo un celebre programma televisivo della BBC. Da anni gira online un celebre video, che mostra quanto il film svela con un colpo di scena che è tale soprattutto per chi non sa nulla o quasi di questa vicenda, mentre per chi sa si tratterà di rivedere, con meno emozione, quanto ha già visto nel documento riprodotto dal film in maniera fedelissima. One Life alterna il piano del passato – dove il protagonista è interpretato con grande misura dal giovane Johnny Flynn, cantante e attore qui alla sua prima vera prova importante al cinema – a quello del presente, con un grande Anthony Hopkins nei panni di un Nicholas Winton affaticato dall’età e schiacciato dai sensi di colpa. Il film è molto classico, non ha grandi guizzi di regia, ma serve in genere bene gli attori e riesce a raccontare con mestiere una storia molto nota nel Regno Unito. E se tra i due piani, quello del passato è sicuramente più emozionante (con la ricostruzione del grande sforzo nell’organizzazione dell’impresa), la vicenda al presente è un po’ troppo compassata, fatta di incontri, saluti, buone maniere ed emozioni soffocate.

Se la scena più forte è certamente quella del treno bloccato, nella Praga del 1938, con i bambini fatti scendere dai vagoni e terrorizzati sui binari da soldati del Reich, è il finale, ai giorni “nostri” (si fa per dire, è il 1988), su cui si concentra James Hawes con una serie di colpi di scena che rievocano come l’impresa di Winton salì alla ribalta dopo mezzo secolo di riservatezza. Un finale che appunto risulta un po’ spento per chi conosce già la vicenda, non essendo stato il regista in grado di usare le corde giuste per commuovere tutti gli spettatori, ma potrà sorprendere e toccare gli “ignari”.

 

Tatami di Guy Nattiv e Zahra Amir Ebrahimi

Ai Campionati mondiali di judo, a Tblisi in Georgia, l’atleta iraniana Leila Hosseini è tra le favorite per la vittoria mondiale. Le gare la vedono inizialmente vincere in scioltezza e procedere sicura verso gli scontri decisivi, sostenuta da casa dall’amore del marito e del figlio e dal tifo di tanti amici che si sono radunati per vederla in tv. Ma quando dall’altra parte del tabellone procede con altrettanta sicurezza la campionessa israeliana Shani Lavi – con cui peraltro, tra un torneo e l’altro, è nata una simpatia e stima reciproca – una telefonata da Teheran del presidente della Federazione iraniana alla sua allenatrice Maryam (ex campionessa che si fermò a un passo dalla medaglia d’oro in un’olimpiade per un misterioso infortunio) reclamano che Leila si fermi, simulando un problema fisico: impensabile che una rappresentante della Repubblica Islamica scenda sul tatami, il campo di gara, contro l’esponente di un «governo occupante», il Paese nemico per eccellenza. Leila, che è una musulmana convinta e utilizza come da prassi il velo anche nelle competizioni, non ha però nessuna intenzione di accettare l’ordine venuto dall’alto, direttamente dalla Guida Suprema del regime. Anche se il pensiero dei rischi che corrono i suoi parenti la angoscia, mentre le gare si susseguono senza pause e la sua testa vorrebbe concentrarsi solo sulle imminenti, delicatissime sfide sportive che la separano dalla vittoria…

Primo film nella storia diretto da un regista israeliano (Guy Nattiv) e una regista iraniana (Zahra Amir Ebrahimi), Tatami è una storia di rara potenza e un’opera cinematografica di straordinaria efficacia. Dal punto di vista strettamente filmico, l’uso di un bianco e nero sulfureo cala la storia in un clima plumbeo e universale (senza i cellulari potrebbe essere una storia di trent’anni fa, oppure si potrebbe riferire a qualsiasi altro paese dittatoriale); il montaggio serrato esalta sia le scene di lotta sul tatami, con combattimenti caratterizzati da scontri duri e prese al limite del soffocamento ma anche correttezza e rispetto reciproco; che i momenti di preparazione, combinando anche lunghi sequenza tra i corridoi del Palazzo dello Sport che ospita gli incontri; senza parlare della concitazione che segue le minacce telefoniche crescenti che arrivano all’allenatrice Mariam e i colloqui sempre più tesi tra Leila e il marito. Molto apprezzabili le musiche, sia all’inizio del film che nella playlist che l’atleta utilizza per concentrarsi, che sembrerebbero rap di cantanti orientali e che rafforzano l’impressione di una donna calata nel suo ambiente culturale così tradizionale eppure moderna e con la voglia di difendere la propria identità.

Ma ovviamente in Tatami – passato alla Mostra di Venezia 2023 nella sezione Orizzonti – sono i temi di fondo che coinvolgono ed emozionano lo spettatore, che si trova a parteggiare subito per un’atleta davanti a una scelta terribile: rispettare il volere del regime, come Maryam le implora di fare (con gli sguardi colpevolizzanti delle compagne di squadra), o continuare a combattere, per la medaglia d’oro e per la libertà, consapevole che da quel momento non avrebbe più la sua amata patria e metterebbe a rischio gli anziani genitori, costringendo anche il figlioletto e il marito a fuggire e rinunciare al proprio paese. I personaggi sono descritti in modo semplice ma convincente: in una stagione che ha esaltato tante figure femminili, Leila è una donna di enorme coraggio (ottimamente interpretata da Arienne Mandi), che vive in una realtà di islamismo di Stato in cui la libertà non è condizione assolutamente possibile; ma a differenza di altri film qui c’è un uomo che la sostiene e la ama in un modo commovente, accettando ogni sua possibile decisione e pagandone le conseguenze. È ben raccontata anche la figura dell’allenatrice Maryam (interpretata dalla stessa regista), che anni prima aveva dovuto passare davanti alla stessa umiliazione senza avere lo stesso coraggio e forse lo stesso sostegno; e che ora deve decidere se sostenere fino in fondo la “sua” atleta o abbandonarla al suo destino per pavidità. E sono interessanti anche le figure delle funzionarie della Federazione mondiale di judo, che devono per statuto garantire la libertà delle atlete ed escludere dalle competizioni gli Stati che coartano la loro volontà, ma che devono anche muoversi sul filo di regolamenti e discrezionalità.

Pur perdendo qualcosa a livello di tensione nella parte finale, Tatami rimane un film bellissimo, molto moderno, che si ispira a una storia vera ad esempio ma che utilizza anche il genere sportivo con le consuete chiavi di lettura metaforiche; come usa l’ambiente claustrofobico del palazzetto dello sport per esaltare il desiderio di fuga dalla prigione delle costrizioni e dei divieti imposti da un’ideologia assurda (come giustamente afferma Leila, non è nemmeno detto che lei e l’israeliana ci arrivino in finale: ma il Potere non usa la ragione). Un film da consigliare in particolare a chi punta solo il dito contro i problemi che esistono in Occidente – dove le contraddizioni non mancano, ma la libertà è un valore acquisito – senza voler guardare alle tragedie della condizione femminile, e dei diritti umani in genere, non solo in Iran ma in ogni paese dittatoriale.

Beppe Musicco

 

 

A cura di:

BEPPE MUSICCO, giornalista cinematografico e critico. Cofondatore e attuale presidente dell’associazione culturale Sentieri del Cinema ( www.sentieridelcinema.it  ). Autore di libri di cinema, consigliere di amministrazione della Fondazione Cineteca di Milano.

CDOLogo DIESSEDove siamo