L'ORA DI TUTTI

di Maria Corti

ed. Bompiani 2021, €13,30, 368 p

 

D’un tratto, a volte, scende il buio. La luce delle nostre giornate viene inghiottita dall’apparire della ‘cosa’, come il pescatore Colangelo definisce la flotta apparsa improvvisamente all’orizzonte di Otranto in una bella mattina estiva. Non c’è vera spiegazione, ovvero non è reperibile un senso, perché, a risalire la catena delle cause, si trova solo il gelo del caso. E allora, “poiché Dio non si vede, bisogna capire che cosa vuole da noi”, come dice un vecchio otrantino nelle ultime pagine del romanzo di Maria Corti. In quel venerdì 28 luglio 1480 la flotta di Akmed Ghedik Pascià non era diretta a Otranto ma a Brindisi. Fu solo la furia del mare, impedendo la traversata del canale, a fermarla in un altro punto della costa.

Otranto si prepara a resistere all’assedio e alla formidabile artiglieria nemica con un pugno di soldati spagnoli, presto dileguatisi, un drappello di soldati napoletani e scarsissime armi. Per quanto virtualmente imprendibile, per la posizione e le possenti mura, la fortezza non è in grado di reggere a lungo senza rinforzi. Se ne chiedono dunque a Napoli, a più riprese ma senza esito. Il re e il duca Alfonso suo figlio sono impegnati in altri conflitti, nella rete intricata e litigiosa dei rapporti tra gli stati italiani.

Nei primi giorni dell’assedio, ad Otranto perdura la speranza nei soccorsi, dubitosa, seppur ostentata per dovere, nel capitano della guarnigione, schietta nella popolazione. E proprio agli uomini validi del popolo il capitano si rivolge per organizzare la difesa. Mai stati soldati, avvezzi a combattere solo con il mare, tutti profondono sulle mura fino all’ultima goccia di energia, sorretti dalla speranza di salvare la città, le mogli, i figli; e ciò è ben comprensibile. Ma lo fanno senza risparmio anche dopo, quando si fa strada la certezza dell’abbandono e la sconfitta appare ineluttabile. Perché? C’è qualcosa di enigmatico e stupefacente (stupefatto è effettivamente il capitano Zurlo) nel coraggio e nella dedizione di questi uomini ormai ben consapevoli che per il loro sacrificio non ci sarà remunerazione e che tuttavia rifiutano ogni offerta di resa. Totalmente estranei alla politica, non nutrono neppure astio verso i Turchi: per ucciderli bisogna stare attenti a non guardarli negli occhi, dicono fra loro, altrimenti ti accorgi che anche loro sono fatti a immagine e somiglianza di Dio. Nessuna idea di eroismo li esalta. Sono abbandonati, vittime di un tradimento, ma il nocciolo più intimo del loro animo si rifiuta di farsene scudo.

Questo nocciolo di verità, in cui sembra rifugiarsi e raccogliersi tutta la loro vita -l’amore, il gusto per il lavoro, la bellezza della città e della natura: quella vita semplice, dura, poverissima e così bella- viene riconosciuto come il bene più prezioso, che non si può barattare senza perdere sé stessi. E questi uomini semplici non accettano di perdere sé stessi. Caduta la città, quelli che non sono morti combattendo potrebbero ancora salvarsi accettando la conversione all’Islam: ben pochi compiono questa scelta.

La situazione ricorda quella proposta qualche anno fa dal film Silence di Martin Scorsese. Forse che la vita non vale più di qualche frase? Perderla per questo non è segno di funebre fanatismo? È forse una colpa abiurare di fronte alla minaccia della morte? E poi, un’abiura pubblica non comporta di per sé un mutamento interiore, d’altra parte neppure richiesto, e Dio che legge nei cuori avrà pietà della debolezza messa a sì dura prova… L’abiura è ragionevole: intanto ci si salva, poi si vedrà… È così che si ragiona, è così che ragioniamo quasi tutti, quando scende il buio. Per questo, la ben nota conclusione della storia ci colpisce di una luce accecante.

Pochissimi accettarono di abiurare. Gli altri, ottocento, salirono insieme il colle del patibolo. “Amici, non si poteva fare altro”, commenta l’anziano e autorevole mastro Natale. Otranto fu sottratta ai Turchi un anno dopo, nel settembre del 1481; da allora i resti degli ottocento martiri, secondo la tradizione trovati incorrotti, furono sempre venerati, fino alla canonizzazione, da parte di Papa Francesco, nel 2013.

L’ora di tutti di Maria Corti fu pubblicato nel 1962. La seconda guerra mondiale era ancora memoria viva, memoria delle tante spaventose circostanze in cui a tanti fu chiesta una decisione estrema, di quelle in cui la vita deve essere arrischiata o perduta proprio per difenderne la dignità e la bellezza. Occasioni, circostanze imprevedute in cui anche ai semplici, ai senza potere, ai senza cultura è chiesto di cercare dentro di sé il ‘minerale’ di cui, secondo la Corti, erano fatti uomini come mastro Natale, il nocciolo più vero, e di rimanervi fedele.

La Corti affida il compito di raccontare la storia a sei personaggi, un capitolo per ciascuno: due pescatori, una donna, il capitano, un notabile che appare sulla scena dopo la liberazione della città, a tirare le somme dell’accaduto. Salvo quest’ultimo, gli altri raccontano da morti e il dipanarsi delle loro vite, intrecciato con i fatti occorsi dopo l’apparizione della ‘cosa’, trova nel momento della morte, con suggestione che potremmo dire dantesca, il suo senso e la sua illuminazione. Da ciascuno siamo condotti nei pressi di quel nucleo profondo da cui si sprigiona l’umana grandezza, ovvero la possibilità di inverare la statura umana tutta intera. Di fronte all’ultimo cimento, la forza viene dalla capacità di stare presso di sé, presso la verità di sé; capacità così ben analizzata da Hanna Arendt e che anche la filosofa tedesca dichiara essersi data più spesso nelle persone semplici. “Amici, non si poteva fare altro”, dice mastro Natale ai concittadini quando la decisione giusta è stata presa ma il terrore rimane. “Amici”: un altro aspetto che il romanzo porta in primo piano è forse sintetizzabile proprio con questa parola. Tutti insieme, non trascinati ma ancorati a quelli tra loro che hanno sempre guardato come autorevoli, trovano la forza di una scelta impossibile.

Si trema al pensiero che possa esserci chiesto di vivere un’ora come quella de L’ora di tutti. Ci si ritrae con tristezza dalla vista del proprio animo così pronto a sottrarsi, a trovare giustificazioni. Maria Corti ci regala, con questo romanzo del tutto esente da agiografismo o da enfasi devozionale, la speranza che per tutti ci sia la possibilità, venuta l’ora, di non fare scempio di sé, di vivere all’altezza del proprio meglio. Specialmente se si ha la grazia di non essere – o non sentirsi- soli.

 

a cura di:

Giuliana Zanello. E' nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

 

 

 

 

 

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