LA CHIMERA

Autore: Sebastiano Vassalli

Romanzo Rizzoli 2015, p.361, 13,30€

Quando chi scrive ebbe la ventura di incontrarlo, Sebastiano Vassalli era già anziano.  Aveva accettato di muoversi dal suo borgo presso Novara, in un pomeriggio d’inverno, per venire a incontrare alcune classi di studenti di liceo, a qualche decina di chilometri. Serio e riservato nel suo cappotto scuro, nella sua aria feriale; amichevole e comunicativo nello sguardo. Gli avevamo chiesto di parlare del suo romanzo, La Chimera, in rapporto ai Promessi Sposi, con cui così evidentemente dialoga, e dunque parlò poco della sua opera e molto di Manzoni, del romanzo nel quale, disse, il grande milanese aveva voluto rappresentare il carattere degli Italiani.  Ne parlò, a quel gruppo di studenti, col tono e il registro con cui ne avrebbe parlato a compagni di strada e di riflessione. Lo scrittore che, ne La notte della cometa, celebre biografia di Dino Campana, ha parole terribili nei confronti del liceo classico, ci offrì quel pomeriggio un brano altissimo di scuola, come luogo in cui le generazioni mettono in comune i problemi posti dalla realtà e dal dramma della vita, tentativi di risposta e domande aperte: vivono una responsabilità.  Il ricordo finisce qui, ma non si tratta solo di una cornice extra letteraria. L’insieme di tratti cui si è accennato definisce anche un modo di intendere il romanzo, il romanzo storico, in particolare. Com’è noto, dopo un periodo di eclisse e di scomunica da parte della critica, in coincidenza con le fortune dello sperimentalismo, di cui anche Vassalli fu una voce, il romanzo storico tornò alla ribalta negli anni ottanta. Legato anche alla temperie socio-culturale che possiamo corrivamente sintetizzare con il termine allora consueto di ‘riflusso’, un ritiro nella dimensione privata di fronte alla crisi delle ideologie, tale ritorno fu potentemente trainato dal successo planetario de Il nome della rosa di Umberto Eco, che aprì il decennio:

[…]  Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell’abate Vallet circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo. A dieci e più anni di distanza è ora consolazione dell’uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amore di scrittura. E così ora mi sento libero di raccontare, per semplice gusto fabulatorio, la storia di Adso da Melk, e provo conforto e consolazione nel ritrovarla così incommensurabilmente lontana nel tempo (ora che la veglia della ragione ha fugato tutti i mostri che il suo sonno aveva generato), così gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri, intemporalmente estranea alle nostre speranze e alle nostre sicurezze.

Così Eco nella celeberrima introduzione al suo romanzo, datata 5 gennaio 1980. Un inno al disimpegno, dopo la politicizzazione estrema, e le connesse delusioni, del decennio appena chiuso? Una epigrafe perfetta per la letteratura del riflusso? Il ripudio, in particolare, della storia come interrogazione assidua del presente? Non possiamo esserne certi, come sappiamo, perché Eco ama mescolare le carte, togliere credibilità a ciò che afferma con un gioco acrobatico di incastri e rovesciamenti ironici. Quindi: inaugurando il disimpegno del nuovo decennio, lo abbraccia con sia pur pacato entusiasmo o lo denuncia come scacco irrimediabile? Difficile dirlo. Come dobbiamo interpretare il progressismo illuminato di Guglielmo da Baskerville, così compatibile con l’orecchio contemporaneo? Davvero era necessaria la gran macchina della trama, con tutto il suo corredo di citazioni letterarie e filosofiche, per esprimere valutazioni tanto astoriche, alla fine banali? O forse anche questo facile illuminismo è (e l’ipotesi è convincente) a sua volta oggetto d’ironia, ironia tanto più raffinatamente dissacrante in quanto l’autore è sicuro che la più parte dei lettori non la riconoscerà, convinta di avere colto il ‘messaggio’?   

Ma torniamo a Vassalli:

[…] Guardando questo paesaggio e questo nulla, ho capito che nel presente non c’è niente che meriti di essere raccontato: il presente è rumore: milioni, miliardi di voci che gridano, tutte insieme in tutte le lingue e cercando di sopraffarsi l’una con l’altra, la parola “io”. Io, io, io… Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla; magari laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia, sotto il “macigno bianco” che oggi non si vede. Nel villaggio fantasma di Zardino.

Sono le righe conclusive dell’introduzione a La Chimera, del 1990. L’autore contempla il paesaggio della campagna novarese, il mondo per lo più cancellato dalla nebbia dove solo di rado il cielo, fattosi limpidissimo, rivela la linea delle Alpi e l’imponente massiccio del Monte Rosa: una chimera, un regno di bellezza e libertà, cui l’autore guarda come vi guardò il poeta amato, Dino Campana, quasi un alter ego, da dietro le sbarre dell’ospedale psichiatrico che fu la sua ultima dimora. Come vi guardò Antonia, la protagonista del romanzo, da dietro le sbarre del carcere in cui attendeva il rogo.  Il Rosa, con tutta la sua favolosa fuga di vette, appare chimerico, un aldilà fantastico, a chi ha l’occhio assuefatto al nulla divoratore. E tuttavia a quel nulla resiste, la sua evidenza resistente non si lascia ridurre al sogno.  Libertà e bellezza paiono chimere, dal fondo del nulla, ma poi d’improvviso si accampano realissime, in un giorno di sole.  La storia non avanza, la storia distrugge, divora i suoi figli, lasciando intatte, un secolo dopo l’altro, ingiustizia, violenza, stupidità, sopraffazione. Tuttavia la resistenza rocciosa dell’altro polo, che tanto più eloquente si manifesta a chi più consapevolmente ne soffre la negazione, non avvia all’ironico disimpegno, bensì alla pietà.  Il romanzo storico è, ne La Chimera, il luogo di una battaglia per la salvezza: il tempo, nella sua corsa, ha cancellato gli uomini, la loro memoria, il loro paese e, leopardianamente, ha trasformato anche il paesaggio, ma il caso ha lasciato sopravvivere alcune carte, scampate al fuoco solo perché erano fuori posto. Quelle carte documentano un’esistenza che lo scrittore può sottrarre al nulla. E se può, deve.

 La Chimera racconta una vicenda occorsa nel novarese, correndo l’anno 1610. L’autore ha ritrovato le carte di un processo per stregoneria a carico della giovane Antonia Spagnolini, conclusosi con la condanna al rogo. Il funesto epilogo è raccontato già all’inizio, nell’introduzione, così che è chiaro che al lettore non si offre il divertimento di una trama. Gli si chiede invece di accompagnare lo scrittore nel lavorio con cui fa risorgere da quelle ceneri   una ragazza, un paese, un’epoca. Di nuovo il topos del manoscritto ritrovato, di nuovo I promessi sposi.  Come, del resto, nel Nome della rosa. Ma se Eco ne esibisce il carattere tutto retorico, artificiale, in una barocca moltiplicazione dei livelli, Vassalli elimina, in sostanza, il ruolo di filtro che l’Anonimo ha in Manzoni. La Chimera non si presenta, insomma, come rielaborazione di un racconto, il narratore non rivendica la presenza di filtri letterari tra sé e la materia narrata. Si tratta di materia del tutto marginale, trascurata, che nessuno ha mai immaginato di investire di dignità letteraria. L’assenza di precedenti è, in questo senso, coerente con l’intento, dichiarato da Vassalli nell’introduzione, di recuperare dal nulla in cui sono stati confinati fatti relativi a personaggi del tutto trascurabili. Il narratore, in altre parole, si espone, assumendosi la responsabilità della ricostruzione dei fatti (peraltro minuziosamente documentata) e, insieme, la responsabilità dei giudizi che a quei fatti va intrecciando; giudizi di un uomo di oggi (o di appena ieri), anch’essi databili, anzi a rischio di apparire presto datati.  

 Anche la lingua è lingua d’oggi, scevra di preoccupazioni mimetiche. Una sintassi complessa ed elegante regge i passaggi storici e argomentativi come le accurate e spesso poetiche descrizioni di un paesaggio che non è più ma prende vita per il lettore nella precisione dei particolari e nella ricchezza delle sensazioni evocate. In questo ricco fraseggio, la voce dei personaggi si inserisce con naturalezza, assai spesso attraverso il discorso indiretto libero. In altri casi, una coralità di tipo verghiano presenta un colorito dialettale, marcato a livello lessicale. Il lessico dialettale, del resto, è sparso lungo tutta la narrazione, ma il suo scopo è informativo, non mimetico, incaricandosi infatti puntualmente il narratore di spiegarne il significato e la connessione con i particolari della vicenda.

Ne deriva un impianto narrativo impregnato di intonazione saggistica, una sistematica interruzione del flusso degli eventi. Il lettore, come già si diceva, non può abbandonarsi al fascino della trama, ma è continuamente ricondotto ad interrogarsi, sul passato e sul presente. Come avviene ad esempio in una delle sequenze più famose, là dove si parla dei risaroli, i più miseri di tutti, condannati a un lavoro che uccide, ridotti praticamente in schiavitù; ma come mai, commenta lo scrittore, in mezzo alla ricca messe di scritti che sono stati dedicati dalla nostra cultura    alle varie forme assunte dalla schiavitù, fino a quella dei neri nei campi di cotone d’America, in mezzo a tanti buoni sentimenti, a tanta pietà, non si trova una riga sui risaroli?

I personaggi de La Chimera, tutti storici, dicevamo, perché balzan fuori, in un modo o nell’altro, dalle carte del processo, si raggruppano in tre categorie: quelli di cui non sapremmo niente, del tutto privi di legami con la Storia, nulla ai suoi occhi; quelli storici nel senso usuale del termine, i cui fatti e detti hanno avuto una rilevanza pubblica; Antonia, di cui dobbiamo parlare a parte. Nella prima categoria troviamo le figure di contadini e popolani in genere, tra cui i genitori adottivi di Antonia; tra i secondi, un buon numero di suore e chierici, il boia e, soprattutto, il vescovo di Novara Carlo Bascapè.

I popolani non hanno nome né storia. Nessuno che li difenda dalle sopraffazioni: l’unica speranza è di rimanere nascosti, ignorati; si avrà così da temere solo la violenza dei vicini, degli ubriaconi, degli squilibrati, ma non quella della legge. Il popolo de La Chimera non è idealizzato: reca i segni pesanti dell’ignoranza e della miseria materiale e morale.  I suoi membri passano sulla terra senza lasciare segno. Tuttavia non è possibile recidere del tutto il legame con la Storia. Proprio il caso di Antonia mostra come un viluppo di sciocchezze, di superstizioni, di odi gretti, di invidie renda a un tratto quella folla minuta e insignificante un ordigno infernale, capace di produrre la morte di un’innocente.  Perché non c’è miseria che renda immuni alla quota di malvagità comune al genere umano. Si può ancora notare come sia proprio a questo punto, e in forza di esso, che una folla di nullità, fango indistinto, entra a contatto con la Storia, con le sue dinamiche e i suoi Personaggi.  Tra i quali, si diceva, spicca il vescovo Bascapé. Collaboratore di Carlo Borromeo, ardente fautore della riforma della Chiesa dopo il Concilio di Trento, alla morte del Santo era stato messo da parte e mandato a finire una carriera che era apparsa ben altrimenti promettente nella sperduta diocesi di Novara. Dove si era adoperato per porre fine a ogni genere di trascuratezza e malcostume del clero ed eliminare i tanti finti preti, mezzo maghi, che esercitavano senza alcun titolo la cura d’anime nei villaggi sperduti. Il corrispettivo del Cardinale Federigo manzoniano, dunque?  Nient’affatto, perché, nella visione che ne offre Vassalli, l’austerità moralistica e dogmatica del Bascapé sortisce soprattutto l’effetto di gravare le spalle dei fedeli di un giogo assai più pesante di quello imposto dallo spensierato clero preconciliare.  A Bascapè e ai religiosi in generale Vassalli non concede il beneficio del dubbio: che siano colti e rigidi o incoerenti e scostumati, non presentano mai tratti positivi, in particolare mai un filo di carità. È forse questo l’aspetto del romanzo che risente maggiormente di unilateralità ideologica, anche perché il male comune al genere umano qui si presenta congiunto al potere. Del resto, nel romanzo nessuna autorità è positiva. Novara fa parte dello stato di Milano, quindi le condizioni politiche sono le stesse dei Promessi sposi. Lo stesso arbitrio, la stessa inefficacia accompagnata da un diluvio di leggi inapplicabili e, in quanto tali, inosservate. Con una sottolineatura in più: Vassalli nota come l’ovvia inosservanza, ponendo praticamente tutti in condizione di colpevolezza, rendesse tutti punibili, all’occasione, e fosse dunque ferreo strumento di dominio. Un dominio esercitato spingendo la popolazione al di fuori della legge, affinché non fosse mai nelle condizioni di rivendicare giustizia. Una legge che bara, con la quale non si può che barare: il presupposto del cinismo individualistico che Vassalli, in ciò concorde con il pessimismo leopardiano, individua come carattere peculiare degli Italiani.

 Tra la stupidità maligna dei popolani e l’arroganza crudele di chi sta più in alto si muove Antonia, a tutti estranea. Troppo bella, troppo umana e troppo autentica per essere sopportata. Eppure capace, nel suo breve passaggio, di illuminare la vita di chi sappia scorgere la sua misteriosa luce. Nell’esattezza della ricostruzione documentaria, la figura di Antonia lascia spazio anche all’idealizzazione e alla poesia. Antonia è una delle figure di irregolari che, proprio perché incapaci di assimilarsi al mondo – il quale perciò li odia- sono forse messaggeri di un bene. Forse è lei, Antonia, la Regina adolescente, sorriso di lontananze ignote: la Chimera della celebre lirica di Dino Campana.

 

A cura di:

Giuliana Zanello è nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

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