OSSI DI SEPPIA 1925 - 2025

di Eugenio Montale

ed. Mondadori Oscar moderni 2024, € 11,40, , p 176, 

 

CENTO ANNI DI "MALE DI VIVERE"

 

Il 15 giugno 1925 è la data della prima pubblicazione a Torino, per i tipi di Piero Gobetti, di "Ossi di Seppia", poesie che, nei prati del decadentismo europeo, spuntavano tra inquietudini esistenziali, sociali e spirituali dei primi decenni del Secolo Breve.

È noto, e bisogna ribadirlo, che il libro di poesie "Ossi di Seppia" si poneva in netta rottura con la magniloquenza retorica di D'Annunzio e dei veleni che essa andava iniettando negli animi già intossicati dal Decadentismo, drammaticamente impegnato a espungere Ragione e Fede dalla letteratura moderna e dall’animo umano, senza tuttavia riuscirci del tutto. Lo stesso titolo del libro contraddiceva il vitalismo estetico di D’Annunzio e del poema solare e marino di Alcyone, ponendosi sul versante della fastidiosa canicola estiva dei detriti, dei residui, di quanto è stato vita e non lo è più perché destinato alla morte.

Proponendosi con un tono dimesso, essenziale, ricco di echi crepuscolari, l’animo poetico di Montale vagola tra le inquietudini di un'epoca segnata dal primo dopoguerra e dall'affermarsi dei totalitarismi d’ogni genere che, con la tipica violenza comunicativa della martellante propaganda ideologica, fanno strame delle parole che perdono di senso e significato. La poesia e, con essa, il poeta - proprio perché artefice primo della parola- si trovano in una drammatica condizione, sentendosi come una preda che si dibatte nella rete della modernità, da cui non v’è “maglia rotta” o “varco” che tenga per uscire. Risulta così uno sforzo inutile e ingannevole consolarsi con delle possibilità di salvezza e di liberazione tradizionali, anche se il poeta non smetterà mai, e lo sappiamo dalle pubblicazioni successive, di cercare un punto debole nella struttura del reale che possa offrire un attimo di verità o di fuga da una condizione esistenzialmente disagevole.

Si tratta comunque di testi poetici singolarmente difficili che non si possono comprendere senza un attento esame della biografia di Montale. Già col primo componimento il Nostro mette in guardia il lettore con una esplicita dichiarazione di poetica, precisando che ai poeti della sua generazione non va chiesta “la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe” e che è trascorso il tempo dei messaggi positivi. Resta solo una sincera denuncia del male di vivere e dell’insignificanza del mondo. Nel paesaggio della sua Liguria, dove Montale “ebbe la culla” (essendo nato il 12 ottobre 1896 a Genova), e specialmente in quello delle Cinque Terre, il poeta trovò gli scorci naturali e ideali per le "correlazioni oggettive" del suo “male di vivere”, espresse con una lingua dai suoni spesso dissonanti e scabri.

Fonosimbolismo, espressionismo, sono termini che si addicono a questo modo non del tutto nuovo di fare poesia. Pensiamo ad esempio a poeti del Decadentismo francese, a T. S. Eliot, al Pascoli di Myricae, al D’Annunzio di Alcyone e, andando più indietro, alle rime petrose e ai canti di Malebolge dell’Inferno di Dante, anche se scaturite da disposizioni emotive e concettuali differenti. Come ne La terra desolata di Eliot, anche Montale nei suoi Ossi di Seppia coglie suoni e ritmi presenti nel paesaggio e, mentre se ne va per le “fasce” delle Cinque Terre liguri, arriva a “sentire con triste meraviglia / com’è tutta la vita e il suo travaglio” per evocare sentimenti e significati che riproducono espressivamente un'atmosfera di frammentazione, di crisi e ricerca di scorci e oggetti che possano ricondurre a qualcosa di significativo.

Comprendiamo così che l’“osso di seppia”, che il mare deposita sulla battigia o sugli scogli, altro non è che il reale e simbolico destino degli esseri viventi che si riducono con la morte solo in detriti inutili e abbandonati. Profeta del nichilismo oggi dilagante nel nuovo millennio come parametro paradossalmente educativo per le giovani generazioni allevate col consumismo e con le nuove tecnologie digitali, la poesia di Montale evidenziava già negli anni venti del Novecento l’impossibilità di dare un significato alle cose che ci circondano. I suoi versi infatti rinunciano alla pretesa di dare certezze o risposte alle principali domande sul senso del nostro vivere.

Come per il poeta latino Orazio, l’“ultima linea rerum”, che ci fa percepire in vita il nostro destino di morte, si presenta per il poeta ligure come una "muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia" (Meriggiare pallido e assorto). La poesia offre “sì qualche storta sillaba e secca come un ramo” (Non chiederci la parola), ma niente che sia salvezza, nessun Oltre da mostrare, se non testimoniare la mancanza, la negatività, l'assenza di un significato ultimo. E così alla terribile domanda di senso che coinvolge tutti gli esseri viventi, Montale risponde dicendo che l’unico senso che ha la vita: è che non ha senso!

Ci verrebbe comunque da dire che non possono esistere domande senza risposte perché sono proprio queste a generarle, come accadde ai primi romantici quando intuirono i limiti di ogni ricerca che si affida solo alla Dea Ragione. Montale è sì un gran maestro di “sillabe storte”, di preziosissime metafore, ma ci testimonia solo il vuoto scavato dal nichilismo esistenziale che pensatori, poeti e artisti moderni e postmoderni hanno proclamato essere l’unica possibile triste verità per l’esserci che si può ricavare percorrendo i sentieri della pur nobile ragione umana. Ma è altrettanto affascinante pensare al fiore azzurro di Novalis e al suo Heinrich von Ofterdingen, protagonista poeta dell'omonimo romanzo che è alla ricerca del fiore azzurro, metafora di ogni metafora dell'iniziazione inesauribile, dell'allegoria di un mistero, della pienezza di vita, della forza del quotidiano e della consapevolezza razionale dei limiti oggettivi della Ragione. E come in un “inno alla notte”, comprendiamo che il sole, come la Ragione, possono sì ben rischiarare le realtà a noi vicine, ma: “Pure, io mi volgo altrove: / verso la santa inesprimibile / misteriosa Notte”.

 

 

a cura di:

COSIMO MERO. Laureatosi in Lettere Moderne, ha frequentato i corsi di Scuola Superiore delle Cominuciazioni dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Docente, ora in pensione, di materie letterarie e latino, ha sperimentato il valore della creatività del teatro e della scrittura creativa nella scuola con progetti ben accolti dagli studenti e dai docenti delle diverse scuole dove ha operato, tra cui, per quindici anni, il liceo classico A. Manzoni di Milano.

 

 

 

 

 

 

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