IL SUO BISIBIGLIO.

Materiali per la biografia di Clemente Rebora, vol.I

 

di Pigi Colognesi

ed. Cantagalli 2024, €34,00, p 912, 

 

Unanimemente riconosciuto come una delle maggiori voci poetiche del nostro novecento (e, con Ungaretti, il più alto testimone letterario della tragedia della Prima guerra mondiale), Clemente Rebora non è stato finora esaurientemente studiato. Soprattutto, il lavoro critico si è troppo spesso esercitato a partire dalla bibliografia piuttosto che dalle fonti dirette, l’accesso alle quali è stato del resto reso problematico, in primo luogo, dal poeta stesso che, nella tensione alla cancellazione dell’io che ne ha caratterizzato la radicale scelta religiosa, ha distrutto molta parte delle sue carte. Né, d’altro canto ha favorito la conservazione e lo studio dei documenti la sua natura di “irregolare”, tanto rispetto al mondo letterario quanto rispetto all’ambiente rosminiano in cui visse la sua vita di sacerdote.

I limiti di cui si è detto investono anche l’edizione attualmente disponibile dell’Epistolario. A ciò si aggiunge, per quest’ultimo, il fatto che l’edizione comprende le sole lettere di Rebora, senza adeguata contestualizzazione storica e senza riferimenti e chiarimenti relativi agli interlocutori, con l’ovvia conseguenza di una perdita di perspicuità e di incisività di testi che appaiono spesso oscuri e come sospesi in un astratto vuoto.

A queste lacune ha posto mano Pigi Colognesi con la sua ultima fatica, Il suo bisbiglio. Materiali per la biografia di Clemente Rebora. Il ponderoso volume raccoglie, oltre alle lettere di Rebora ai suoi corrispondenti, quelle a lui indirizzate e quelle scambiate tra i corrispondenti in cui si parli del poeta. Il materiale, ricchissimo, è tutto quello cui Colognesi ha potuto accedere setacciando archivi pubblici e privati, con non pochi inediti, e copre un segmento cronologico che arriva fino al 1929, l’anno della conversione. Il materiale relativo agli anni di sacerdozio, invece, sarà il contenuto del futuro secondo volume.

Oltre al riassetto filologico, la fatica di Colognesi risponde anche ad una seconda esigenza, finora insoddisfatta per quanto richiamata già nel 1937 dall’autorevole voce di Gianfranco Contini:

I Frammenti lirici (…) presuppongono direttamente l’ambiente milanese, perfino quello delle Scuole tecniche dov’egli insegnava.

L’osservazione di Contini trova pieno riscontro nel lavoro di Colognesi che proprio quell’ambiente milanese ci mette sotto gli occhi con affascinante ricchezza, ora direttamente tramite le voci  delle lettere, ora con agili ragguagli.

Fin qui abbiamo parlato dell’Epistolario e di un lavoro ad esso relativo che consente più adeguato apprezzamento di scritti che hanno anche un valore letterario autonomo. Resta ancora da sottolineare un secondo aspetto di non minore rilievo, ovvero che cosa abbia da dire il lavoro di Colognesi sulla questione critica forse principale posta dall’opera poetica di Rebora. Questione che nel libro viene messa a fuoco con chiarezza, nell’ambito di un sintetico bilancio critico, sia nelle due prefazioni (a firma di Uberto Motta e di padre Ludovico Maria Gadaleta, direttore dell’Archivio storico del Centro di studi rosminiani di Stresa), sia nell’introduzione dello stesso Colognesi. La critica relativa a Rebora ha presentato a lungo una radicale dicotomia interpretativa, dividendosi, con opposte prospettive, tra coloro che pongono la finale scelta della conversione come punto di partenza di una esegesi sostanzialmente retrospettiva, leggendo le precedenti prove reboriane come premesse di quella scelta, e coloro che considerano invece la conversione come momento che pone fine alla creatività, come ‘morte del poeta’. Colognesi avverte la responsabilità di evitare questa fallacia metodologica, con i suoi sottintesi ideologici, e soprattutto sul primo versante, com’è ovvio in considerazione del segmento cronologico di cui questo volume si occupa. Si tratta dunque di evitare letture a posteriori che risolvano, riducendone la portata drammatica, il paradosso che pervade i Frammenti lirici come i Canti anonimi, come le liriche dell’incompiuto libro sulla guerra, l’umano paradosso così sintetizzato da Uberto Motta:

(…) Rebora, il giovane Rebora, avverte l’attrazione per la bellezza, la verità, il compimento, e però subito viene incalzato dalla propria insufficienza, dalla propria povertà. È la non medicabile ferita, che preclude la pace, la serenità: che alimenta l’angoscia, il tormento, e tuttavia fa germinare in lui l’attesa. (…) potrò io, potrà ogni uomo da sé (…) trarre quella goccia o gioiello che possa minimamente corrispondere al suo bisogno? Che cosa posso fare io, per me e per chi mi sta accanto? Simili interrogativi, tutt’altro che retorici, rimangono senza risposta Ma è proprio dalla radicalità di tali domande, con il coraggio che occorre per non liquidarle con un gesto d’improvvida rimozione, con una soluzione prêt-à-porter, che Rebora è avvinto, e da esse è portato ad ammettere: “la vita vale la pena di viverla”.

 Domande universali, dunque, che, anche quando non ideologicamente liquidate, possono essere smorzate imprigionandole nella sfera dell’universale letterario; e sappiamo bene come nessuno sperimentalismo linguistico e stilistico, per quanto ardito e financo aspro, valga di per sé a scongiurare esiti alla fine essenzialmente retorici, dal lato dell’autore come da quello dell’interprete. Ed è su questo fronte che l’osservazione di Contini prima riportata rivela tutta la sua pregnanza e il lavoro di Colognesi si presenta come provvidenziale soccorso. Rebora non pensò e non volle la poesia come cosa che fosse accanto alla vita o fuori di essa. La volle come poesia-azione, come il proprio modo di andare incontro al mondo e di agire in esso. Per migliorare l’uno e l’altro, nella coscienza acuta e dolorosa dell’insufficienza e, insieme, di un bruciante punto trascendente di entrambi.

Il mondo degli studi universitari, il dibattito culturale, ma anche la vita dei soldati di leva, le scuole, il paesaggio urbano industriale; poi la guerra, la sua atrocità definitiva che forse nessun’altra voce della nostra letteratura ci scaglia in viso con la stessa verità senza riparo; la malattia mentale, le cure tanto crudeli quanto inefficaci: si è tentati di dire, ricordando Eliot, che in questo libro c’è troppa realtà, più di quanto gli uomini sappiano sopportare. Eppure, ad onta di tutto e grazie a tutto, ne promana un potente soffio di vita e di giovinezza, una tensione inesausta al vero di sé e del mondo, a un vero presagito, a un bene affermato dal dolore dell’assenza. Forse è questo il maggior lascito del libro a chi vi si accosti da comune lettore: la storia di un uomo costantemente impegnato con sé stesso e con la vita, sempre, anche quando questa si ferma e si rattrappisce in un male di vivere tutt’altro che teorico che ne sbriciola le giornate.

Per concludere, il libro di Colognesi ha in qualche modo ridato vita all’Epistolario reboriano, o meglio gli ha permesso di sprigionare anche per noi lettori di oggi la pienezza di umanità che contiene. È, in questo volume, l’epistolario di un giovane, come si diceva, ed è il racconto di una giovinezza che non accetta di normalizzarsi, di spegnersi, e, nel contempo, non cede al sogno velleitario. Il bisogno di amicizia e il senso di un’insuperabile distanza anche nei confronti degli amici più cari; la coscienza delle proprie grandi possibilità e il limite – sociale, economico, personale- che sembra negarle beffardamente; l’alternativa tra il compimento di sé e il darsi agli altri, il sospetto che l’alternativa sia falsa: è tutto il dramma di un’adolescenza e di una giovinezza non censurate. Gli insegnanti hanno da scegliere, anche a tacere delle parti relative alla guerra, che ogni studente avrebbe il diritto di conoscere, prima di lasciare le aule scolastiche.

 

 

a cura di:

Giuliana Zanello. E' nata a Milano nel 1957. Si è laureata all’Università Cattolica del Sacro Cuore e ha insegnato al liceo classico di Busto Arsizio. Collabora occasionalmente con IlSussidiario.net

 

 

 

 

 

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